Kiri, Sud Sudan - Estate autunno 2000 #4
Domenica 24 settembre: mobilitazione, scampagnata e idromiele
Altre due settimane dalla mia ultima missiva. Novità di rilievo riguardanti il lavoro non ce ne sono, in laboratorio continuano a esserci le folle. Non sempre l’olezzo è dei più gradevoli, ogni tanto i bambini se la fanno addosso oppure qualche disperato arriva da lontanissimo sporco lercio.
Domenica dieci ho fatto una stupenda passeggiata accompagnato da Anna, simpatica infermiera tedesca. Avevamo come meta di raggiungere il fiume indicato sulle cartine disegnate a mano dal personale locale. Ci siamo incamminati su una stradina abbastanza larga, per poi svoltare a destra in un viottolo più stretto con erba alta quanto noi dai due lati del sentiero. Ogni tanto incontravamo delle capre, poi siamo giunti in un piccolo villaggio dove una donna seduta per terra con due bambini puliva granoturco, e erano tutti e tre circondati da un tappeto di pannocchie bianche. Era un’immagine bellissima, ma purtroppo quando ho voluto fotografarli, si sono subito messi in posa con altri cinque bambini sbucati da chissà dove, sorridenti e rigidi sull’attenti. Abbiamo chiesto dov’è il fiume, e un vecchio si è offerto di accompagnarci (tutte queste spiegazioni e offerte sono state possibili perché c’era un giovane che parlava inglese; gli altri parlavano solo kuku). Siamo rapidamente giunti a a qualcosa che era poco più di un ruscello, ma sulle sue rive cresceva una vegetazione lussureggiante, degna dell’Amazzonia. Ho saltato, e un piede mi è finito in acqua. Anna ha esitato un attimo, e tanto è bastato perché il vecchio, senza fare ne ah ne bah, se la caricasse sulle spalle. Abbiamo proseguito, e dopo un pò di tempo siamo giunti alla borgata di Jalimo. Lì c’era una gran festa, un gruppo di persone cantava e saltava brandendo lunghe frasche, mentre in un angolo due gran pentoloni di polenta bianca bollivano sul fuoco, con uomini e donne che li rimenavano con grandi bastoni. Ci siamo informati, e la festa era in onore di un camion che avevano appena ottenuto. Uno di quelli che ballava, probabilmente completamente ubriaco, è venuto verso di me, mi ha detto qualcosa, e si è sdraiato ai miei piedi e ha finto di dormire. Allora mi sono sdraiato di fianco a lui, ho messo le mani giunte sotto la guancia e ho mimato un sonno fumettistico; la cosa ha scatenato una risata generale. Molte risate anche quando ho preso un bastone e mi sono messo a mescolare un pentolone di polenta. Siamo poi tornati, stanchi e Assetati, e quella sera la birra aveva un sapore migliore del solito.
Nei nostri quartieri, la convivenza con animali vari continua allegramente. Un pomeriggio ho provato a portare una bacinella d’acqua a quelle povere pecore da ore sotto il sole, e Kaproni mi si è precipitato contro a testa bassa, col risultato che mi sono rovesciato addosso la bacinella. Tutti hanno riso, mentre io sono dovuto andare a cambiarmi. Quanto alla gallina con i pulcini, si è abituata al fatto che io le butto briciole, e regolarmente ci entra in sala da pranzo. Non tutti apprezzano, e la mandano via tirandole addosso oggetti vari: coooot cot co codaak! Comunque quando esco mi corre incontro con i suoi pulcini, evidentemente mi riconosce. La gallina che è nel recinto, invece, se mi avvicino si butta contro la griglia terrorizzata: evidentemente ha visto quando hanno tirato il collo alle sue colleghe.
Stamattina ne è successa una bella: sveglio da poco, del mio solito umore mattiniero, avevo appena acceso a fatica il fornello a kerosene per mettere su il caffè. Improvvisamente la cuoca ci dice che durante la notte sono passati dei soldati e si sono portati via tutti gli uomini giovani. Così, senza che noi, a pochi metri dagli alloggi del personale, ci accorgessimo di nulla! Mancavano all’appello quasi tutti gli infermieri, autisti, meccanici, muratori, e i miei tecnici di laboratorio. Anne, la coordinatrice, e Gianni, il logista, si sono precipitati a Kajo-Keji per discutere con l’amministrazione locale, tentare di capire la situazione e cercare di ottenere la liberazione di tutto il personale. Adesso che scrivo, vittoria! Eccoli che tornano. Sono tutti in buona salute, dicono di stare bene, ma hanno l’aria un po’ provata. Mi raccontano che sono stati portati via alle tre di notte, fatti dormire all’aperto, ma che non sono stati picchiati. Adesso si tratta di fare capire alle autorità che una cosa simile non dovrà mai più ripetersi, sennò chiudiamo baracca e burattini. In tal caso chi ci rimetterebbe sarebbe la popolazione, ma siamo costretti a fare capire che con noi non si gioca, che l’ospedale non è un centro di reclutamento. Inoltre c’è il rischio che la popolazione stessa che noi siamo di connivenza con l’esercito e che venendo a farsi visitare rischiano di essere presi e essere inviati a combattere contro le forze di Karthoum.
Il quadro della situazione è, semplificato, il seguente: da diciott’anni nel sud del paese c’è una ribellione, nata quando il governo ha introdotto la Sharia o legge islamica, fregandosene che il sud è cristiano-animista. Ora parte del sud, compreso qui dove siamo noi, è abbastanza saldamente in mano ai ribelli, anche se il fronte è a soli quaranta chilometri. Il movimento si chiama SPLA (Sudan People Liberation Army), e il suo governo in esilio è a Nairobi. L’SPLA ha un braccio «umanitario, l’SRRA (Sudan Relief and Rescue Agency), che è la nostra controparte. Controparte assai scassaballe, devo dire: niente e-mail, fax o telefono satellitare; per comunicare ci è permessa solo la radio, e solo in inglese. Comunque qui sono loro i padroni, e quando si passa la frontiera, se dal lato ugandese non c’è nessun controllo, da quello sudanese non ci viene chiesto il passaporto, ma uno speciale permesso fornitoci dall’SRRA. Adesso la tensione aumenta, perché sono giunte voci che Kharthoum sta preparando una grande offensiva, e L’SPLA ha un impellente bisogno di uomini, armi e soldi. Per procurarsi i soldi, tra l’altro, hanno tentato di venderci un container vuoto nel quale avevano ricevuto un carico di armi, e si sono arrabbiati quando il logista si è rifiutato di alzarsi alle sette del mattino di domenica per andarlo a vedere. Con tutto ciò c’è sempre il pericolo che gli «Antonov» di Karthoum ci vengano a bombardare, e per quel motivo abbiamo costruito un rifugio. Per ora ci tengo dell’idromele a fermentare (acqua, miele, lievito: tappate bene e tenete al fresco alcuni giorni, otterrete un’ottima bevanda frizzante leggermente alcoolicca). Non preoccupatevi per me, al minimo segno di pericolo evacuiamo nella vicinissima Uganda, e gli Antonov a elica si sentono da lontano.