MSF missions

12/08/2000

Kiri, Sud Sudan - Estate autunno 2000 #1

Autore: Roberto La Tour

Sabato, 12 agosto 2000: il materasso è umido

Partito da Ginevra giovedì 27 luglio, avevo come compagne di viaggio Monika e Helma, la prima infermiera e la seconda medico; sono tutte e due tedesche. Loro avevano rimpinzato lo zaino di salumi e formaggi, io di caffè. Siamo arrivati a Nairobi la sera stessa e ad attenderci c’era Maina, lo stesso autista che mi aspettava a gennaio. Ci ha portati alla Guest House di MSF-Svizzera, dove questa volta la dispensa era ben fornita e ho potuto cimentarmi in una pastasciutta per la quale ho meritato dei teutonici complimenti. Il giorno dopo è stato interamente passato in ufficio, e mentre le mie colleghe partivano la sera alla volta di Kiri, io ho dovuto restare a Nairobi fino a domenica. Sono allora andato a Kampala, dove sono stato invitato a pranzo da Regina, la mia capomissione quando ero ad Amudat. Mi dicono che ho un volo prenotato il mattino dopo da Entebbe per Arua, nel nord-est dell’Uganda. Arrivo prestissimo all’aereoporto, e mi viene subito annunciato che sono in lista d’attesa. Che gioia che gioia. Alle otto, quando l’aereo avrbbe dovuto partire, mi dicono di sbrigarmi, che se i passeggeri ritardatari arrivano fanno salire loro. Saliamo sull’aereo, un turboelica con diciannove posti, quando sono seduto arrivano i ritardatari, e uno di loro non trovando posto, lo fanno scendere. Ha fatto una scenata orrenda sulla pista. Io mi sentivo un po’ colpevole e molto sollevato; siamo partiti e dopo aver sorvolato il parco delle cascate Murchinson e la foce del Nilo nel Lago Alberto, siamo atterrati sulla pista in terra di Arua. Lì un autista di MSF-Francia mi aspettava, e mi ha portato a Omugo, dove dovevo passare una settimana con MSF-Francia.

Omugo è un buco; poche case lungo una strada in terra, ma MSF ci ha costruito un programma di lotta contro la malattia del sonno che copre l’intera regione. Mi sono quindi installato per una settimana con un gruppo di francesi molto simpatici, e ho imparato le tecniche per la diagnosi di questo terribile male. Per sradicarlo da una regione, è necessario che il maggior numero possibile di persone venga curato, in modo che la mosca Tse-Tse non trovi materiale umano da cui infettarsi e trasmettere l’infezione. Hanno quindi organizzato un sistema capillare di “active screening” in cui del personale locale chiamato “Sleeping Sickness Assistants” (SSA) fa il giro di tutti i villaggi, e invitano tutta la popolazione nel raggio di un chilometro a trovarsi in un punto ben preciso un giorno definito; quel giorno una Toyota va lì con tavoli pieghevoli, un megafono e del materiale. Ho partecipato a una di queste sedute; l’automobile si è inoltrata per sterrati sempre più stretti fino a diventare sentieri su e giù per le colline, e ci siamo fermati vicino a un piccolo villaggio dove una siepe tagliata alla perfezione delimitava tre capanne. Il tavolo con l’apparecchiatura è stato sistemato sotto un albero, e con il megafono la gente è stata chiamata a raccolta: tutte le persone presenti si sono messe ordinatamente in fila per gruppi di dieci, gli hanno palpato i ganglioni sul collo e prelevato una goccia di sangue per un test fatto subito sul posto. I positivi sono stati riferiti all’ospedale di Omugo per esami più approfonditi dove, se la malattia viene confermata, verranno ricoverati e curati.

Lunedì mattina l’autista mi porta a Moyo, vicino alla frontiera con il Sudan, dove la Toyota di MSF-Svizzera mi aspettava. Moyo è una cittadina piacevole, con molte bottegucce che vendono pentole in alluminio senza manici e sacchi di zucchero da dieci chili. Siamo partiti, lo sterrato è brutto e stretto, non esiste dogana dal lato ugandese, entriamo in Sudan (una pietra indica la frontiera), e dobbiamo fermarci al posto di blocco del movimento ribelle che controlla questa parte del paese. Entriamo in una capanna di legno e paglia, e un individuo trascrive laboriosamente su un quaderno scolorito dall’acqua i dati indicati sui nostri permessi di transito. Ripartiamo, e finalmente arriviamo a Kiri.

Kiri non è una città, e nemmeno un paese. In mezzo a fogliuti alberi di mango, MSF ha costruito un ospedale, le case per il suo personale e quelle per noi. L’ospedale, interamente dedicato alla malattia del sonno, è bello, con i suoi due reparti dal tetto di paglia, tecnica tradizionale che ha il grosso vantaggio di tenere i malati al fresco; il laboratorio, l’ufficio, il magazzino, alcuni altri edifici minori e nuovi reparti in costruzione. In costruzione sono anche le nostre abitazioni, e viviamo in un cantiere. C’è un grosso edificio centrale, lo stanno intonacando ora, che funge da refettorio e salotto, con da un lato la cucina e dall’altro due lavandini che usiamo per lavarci denti, mani e mutande. Infatti le tradizioni locali proibiscono alle colf di lavare la biancheria intima di chiunque eccetto il marito. La cucina viene interamente effettuata su due fornelli a carbonella, per fortuna da ieri ne abbiamo pure uno a kerosene, cosa che rende più facile la preparazione del caffè.

Per dormire, ogni espatriato ha un tukul (casetta monolocale col tetto di paglia), ma quelli di una collega e mio non sono ancora pronti. Ci tocca quindi dormire sotto la tenda, ma qui la situazione è ben diversa che a Amudat. Innanzitutto le tende sono piccole, inoltre siamo in piena stagione delle piogge. Le mie coperte sono umide, il mio materasso è umido, i miei vestiti sono umidi. Quando mi alzo di notte per andare in bagno, devo stare attento al fango, poi raggiungo delle latrine col buco per terra dove mi illumino con la pila. Di giorno può piovere davvero forte, e andare dall’ospedale a casa diventa un’impresa: è difficile evitare di sprofondare nel fango fino alle caviglie. Fare la doccia quando piove è anche un'impresa: infatti le docce sono a cielo aperto, c'è solo un muretto. Il tempo di lavarsi, e l'asciugamano è fradicio. Bisogna quindi ritornare alla tenda, non si può farlo nudi, sostituire quello bagnato con uno umido, tentare di asciugarsi, cercare in fondo alla valigia qualche vestito asciutto, vestirsi, uscire dalla tenda e correre verso l'edificio comune molto velocemente per non bagnarsi di nuovo, ma facendo attenzione a fango e pozzanghere, il tutto nella penombra delle sette. Consumiamo quindi un pranzo caldo (riso, patate, fagioli, cavolo, a volte carne) alla luce di candele e lampade a petrolio. I miei colleghi sono simpatici, e li ho fatti molto ridere quando gli ho spiegato perchè detesto le latrine. Loro le trovano comode e igieniche (boh?). Comunque vedremo come andranno avanti le cose, il mio tukul ha progredito di parecchie file di mattoni e spero di essere presto all’asciutto.


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