Siberia Occidentale - Estate 2003 #1
Martedì 22 luglio 2003, Sibirski pajalska
Dopo un viaggio che ha incluso due giorni a Bruxelles e preceduto da un mese ad Anversa, arrivo giovedì tre luglio a Mosca, perdo due ore al controllo passaporti, e trovo Sergei, l’autista di MSF, che è venuto a prendermi. Mi porta in un appartamento in centro, carino e in ordine, ma l’ingresso e la scala condominiale sono stati puliti per l’ultima volta nel 1962. Sogno una lunga doccia calda, ma di acqua calda non ce n’è. Cerco disperatamente un boiler, un rubinetto nascosto, che so, niente. Scoprirò più tardi che con l’eccezione di qualche condominio moderno di lusso, l’acqua calda manca in tutta Mosca, e nelle principali città russe, perché è centralizzata per quartiere, e in luglio la chiudono per tre settimane per pulire le tubature. Che gioia lavarsi con l’acqua fredda. Arrivano Olivier e Franck, due colleghi dell’ufficio MSF di Mosca, e mi portano in un ristorantino dove scopro l’ottima birra russa e mangio un arrosto con salsa di prugne. I giorni seguenti sono stati passati in ufficio, e il week-end Anna, la corrispondente de La Stampa mi ha fatto scoprire Mosca e dintorni, incluso il monastero di Nuova Gerusalemme. Lungo la strada vediamo una piramide in vetroresina con una folla che ci entra; si tratta di un furbacchione che l’ha costruita, ne vanta le proprietà taumaturgiche e vende acqua e gadgets.
Lunedì sera parto per Kemerovo, l’aereo è vecchio e stipato, l’attesa prima del decollo soffocante senza aerazione, ma poi il servizio a bordo buono, cibo pure e arrivo dopo un volo di quattro ore, e altre quattro di fuso orario, a Kemerovo. A prendermi c’è Fred, il logista, e mi portano nel mio appartamento. Una sana dormita, una doccia fredda, poi in ufficio. Arrivo mentre è in corso una riunione con tutto il personale, pare pochi giorni prima l’assistente di un collega abbia trovato uno scarafaggio nella minestra e, benché vari testimoni affermino si trattasse di una cipolla un po’ bruciata, lei si ostinava ad affermare che era una mancanza di rispetto contro di lei non prendere sul serio la sua lagnanza. La sera, tutti in un ristorante con un dehors. Oltre a Fred, c’è la sua fidanzata Ilse, medico, Yvon, laboratorista, Dominique, medico e responsabile regionale, Jean-Yves, sociologo, e Carlos, medico. Ho così passato alcuni giorni a Kemerovo, capoluogo regionale del “Kemerovo Oblast”. E’ una città abbastanza bella, tutto il centro è composto da viali alberati che si intersecano ad angolo retto con condomini di quattro piani che noi diremmo “fine ottocento” ma sono anni trenta. Ci sono teatri, cinema, negozi, mercati, supermercati, un fiume, gruppi di giovani in giro. Per la prima volta in vita mia ho fatto la sauna, che qui chiamano “bagna”, con tanto di spalmatura del corpo con miele e sale e frustate con frasche di quercia. Sto per conto mio in un appartamentino, e la vita sociale ha incluso anche un pub irlandese e la festa d’addio per Yvon in cui ho tentato di fare una carbonara. Yvon mi fa un “briefing” completo, e mi porta in giro per ospedali, dove mi presenta allo staff del laboratorio. Gli ospedali sono un disastro se confrontati con i nostri standard, e se ci sono servizi igienici in ordine è perché MSF è intervenuta. Il week-end arrivano i miei colleghi di Mariinsk, Silje, infermiera norvegese, Osman, medico sudanese e Isaias, medico etiope. Lunedì partiamo con loro e Fred per Novokuznesk, a sud, quasi tutta autostrada, paesaggio di campi coltivati verdissimi. Novokuznesk è meno bella di Kemerovo, ci sono più fabbriche e ciminiere, anche lì dormiamo in appartamentini in vecchi condomini, e la sera andiamo con dei colleghi dello staff locale a mangiare degli spiedini di maiale e agnello (“sashlick”) che sono la fine del mondo in un ristorante all’aria aperta. Tornando a casa, di fronte al teatro, veniamo fermati da un tizio che indica Isaias e gli dice che finora aveva visto i neri solo in televisione, era veramente affascinato. Aveva l’aria giovane, eppure ha detto che era appena uscito dopo quindici anni di prigione. Abbiamo anche incontrato un bambino di strada che voleva parlare. Grosso problema, i bambini senza famiglia. Il giorno dopo visito il laboratorio dell’ospedale della prigione, poi dopo un’ottima colazione preparata in ufficio ripartiamo per Kemerovo.
Il giorno seguente, finalmente, Mariinsk! Dopo 150 km di strada tra campi e boschi, arriviamo in quello che sembra un grosso paese con casette sparpagliate, mucche e pecore. Mi piace subito. Mi presentano lo staff dell’ufficio, c’è Nastia (Anastasia), la mia assistente, ci sono Lena, Marina, Irina, e non ricordo gli altri nomi. Dopo il lavoro propongono di andare a cercar fragoline, non ne troviamo molte, ma la campagna intorno a Mariinsk è verdissima e tutta un fiore e finiamo la giornata con un bagno nel fiume. Poi finalmente andiamo a casa, io vivo con Silje, in una casetta con salotto e camere a pian terreno, cucina e bagno nell’interrato. Vicino a casa ci sono tre botteghe che vendono alimentari; per chiedere cosa voglio devo indicare la merce e dire “niet” e “da”. Giovedì arrivano Fred e Jean-Yves da Kemerovo, e Nicolas, il capomissione, con Olivier, e Marc Walsh, l’addetto stampa, da Mosca. Per l’occasione viene organizzata una gran festa con sashlick davanti all’ufficio, con il direttore della prigione come ospite d’onore. L’invito era per le otto, arrivo alle otto meno un quarto, ed erano già tutti a tavola. Mi fanno sedere di fianco al direttore, e sono obbligato a brindare alla russa, tracannando d’un fiato bicchierini di vodka. Con la scusa di far foto e vedere come si fanno gli spiedini, mi affretto ad allontanarmi. La festa è un gran successo, tra gli ospiti ci sono quattro tedeschi incontrati in paese che fanno Francoforte-Vladivostock in moto, e Jean-Yves insegnava ai russi a fumare il narghilè (ma si può? Si è portato dietro un narghilè e una scorta di tabacco profumato alla mela). Il mattino dopo continuiamo la riunione di lavoro iniziata il giorno prima, ma il gruppo di Mosca non stava in piedi a causa delle libagioni del giorno prima e del fuso orario.
Venerdì pomeriggio, partenza per un week-end nella natura siberiana. Imbarchiamo armi e bagagli in un furgone, e con due pulmini raggiungiamo il villaggio di Makarakskii sulle rive del fiume Kia, e ci fermiamo mezzo chilometro più a valle, il furgone scarica la nostra roba, e se ne va coi pulmini. Montiamo il campo, comincia a piovere, e noi siamo tutti lì come pere, sotto la pioggia, senza riparo, cercando di arrangiarci con un telo di plastica tenuto su da due rami. La guida accende un fuoco, ci mette sopra un secchio pieno d’acqua, peliamo patate, le mettiamo nel secchio, e poco a poco prende forma una minestra alla quale viene aggiunta pasta, e il contenuto di scatolette di pesce e di maiale. Sembra strano, ma era abbastanza buona. Per mangiarla, siccome non avevamo ne piatti ne scodelle, abbiamo usato le scatolette vuote o i cartoni di succo di frutta tagliati. Più tardi viene acceso un secondo fuoco un po’ più in là, si canta, si beve, alcuni colleghi si ubriacano abominevolmente, giochiamo al gioco del palloncino (bisogna tenerlo fra le ginocchia e farlo risalire fino al collo), poi li saluto e vado a dormire, l’interno della tenda è asciutto e il sacco a pelo pure, e dormo come un sasso. Mi sveglio tra i primi, è tutto fradicio fuori, la guida cerca di accendere un fuoco con la legna bagnata, ci riesce pure, e riesco a bermi un caffè caldo. Dopo lunghi preparativi, smontiamo il campo, montiamo gli zatteroni, ma io sono in un canotto per due con Nicolas, che purtroppo si è ubriacato brindando con un pescatore russo che sembrava una montagna di muscoli e che voleva a tutti i costi sgonfiare il canotto perché secondo lui avrebbe tenuto l’acqua meglio.
Il fiume è un incanto: ha smesso di piovere, c’è il sole, fa caldo, l’acqua è limpidissima, e si passa tra colline e montagne coperte da foresta lussureggiante. Ci sono aquile e altri uccelli, e gli unici rumori che si sentono sono i loro canti, oltre al fruscio del vento e dell’acqua, e le urla di Olivier che si diverte ad apostrofare Marc che ha ancora i postumi della sbornia: “WALSH! WALSH!”. Non ci sono mai vere rapide, ma solo alcuni punti in cui l’acqua è un po’ movimentata. Facciamo alcune soste per fare il bagno, e ci fermiamo vicino ad una cascata. Sarebbe tutto paradisiaco non fosse per i tafani estremamente aggressivi. Alle otto di sera siamo ancora lì che pagaiamo, il cielo si copre e ricomincia a piovere. Finalmente, sono le nove, troviamo un posto adatto per passare la notte, c’è persino una sorgente. Montiamo le tende, per fortuna smette di piovere, facciamo un fuoco, cuciniamo di nuovo la stessa sbobba e la mangiamo allo stesso modo, per fortuna stasera nessuno si ubriaca, il giradischi è sempre (per fortuna) rotto, deve aver sofferto dell’umidità, io purtroppo sono molto umido perché l’acqua è entrata nel mio zaino, ma tenda e sacco a pelo sono asciutti e dormo di nuovo benissimo. Il mattino dopo sono il primo sveglio, e provo ad accendere il fuoco. Ci riesco con l’aiuto di Natalia, l’organizzatrice del week-end, e presto mi ristoro con un caffè caldo. E’ incredibile quanto il nescafé con il latte condensato, che normalmente considererei una schifezza, sia buono in questi frangenti! Ripartiamo, questa volta Nicolas è in piena forma, e dopo una navigazione in un paesaggio sempre bellissimo arriviamo alla fine della gita, smontiamo gli zatteroni, furgone e pulmini ci vengono a prendere, e ci portano lì vicino al villaggio di Chumsai dove vive la madre di Natalia. Un vero e proprio banchetto è organizzato in nostro onore: in una vecchia casetta in legno, senza acqua corrente ma con la pompa in cucina, c’è una tavola imbandita con un piatto incredibilmente buono a base di agnello (pecora? montone?) “ucciso il mattino stesso” e dei pelmeni, ravioli russi. Poi visitiamo l’orto, che è un vero e proprio campo che produce sufficienti patate per la famiglia per tutto l’inverno; ci sono anche carote, barbabietole, cetrioli, pomodori; e pure maiali e galline. Il padrone di casa è molto simpatico, e per chiamare Isaias, grida “Africa! Africa!” e poi gli regala una statuetta in legno rappresentante un orso. Finalmente torniamo a casa, cotti, stanchi, bruciati, doloranti e punti, ma felici. Non prima, però, di essere andati all’altra casa, dove vivono Isaias e Osman e portato a passeggiare Taiga, un enorme, bellissimo, simpaticissimo pastore caucasico che purtroppo dovrà essere dato via perché pochi giorni fa era riuscito a uscire e in un raptus di follia omicida aveva ucciso dodici galline nel recinto dei vicini, e pare non sia la prima volta che succeda.
Adesso al lavoro, per ora tranquillo finché le autorità penitenziarie (il “GUIN”) non ci autorizzano di nuovo ad entrare nelle prigioni. Il problema è dovuto ad una differenza di opinione tra MSF (che non fa altro che seguire i protocolli medici moderni e le raccomandazioni dell’OMS) e il ministero russo della sanità su come si cura la tubercolosi. Ieri sera ho cucinato per tutti, pasta con salsiccia, pollo e cipolla e insalata di pomodori con uova sode e formaggio, mi hanno tutti fatto i complimenti.