Dingila, Ueles, Province Orientale, Congo - Febbraio 2014 - 1
Levataccia alle cinque per prendere il volo KLM che mi porta, via Amsterdam, a Entebbe. Un’ora per raggiungere la guesthouse a tarda ora, e via si riparte al mattino con appena il tempo di ingoiare un caffè e due uova verso l’aeroporto, di nuovo un’ora. Lì prendiamo un aroplanino di Air Serv, pesano non solo i bagagli ma pure noi, e si parte per Bunia. Formalità più facili del previsto, pomeriggio in ufficio, briefing col capomissione, pranzo ottimo a base di pesce del lago Alberto avvolto dentro foglie di verza, doccia vera ma fredda e notte ahimè troppo breve, e partenza di nuovo con Air Serv con un Cessna caravan col logo di MSF sulla coda. Stop sulla pista di Dorouma dove sale Nicolas con cui avrò la gioia di condividere le prossime due settimane, pieno all’aereo con pompa a manovella e volo fino ad Ango dove Nicolas e io scendiamo. Ci portano alla « base », probabilmente un’ex missione vista la stanza da pranzo ad ogiva, e ci indicano le nostre camere, due spaziose tende in cortile. Incontriamo Christina, la responsabile del progetto, carina bionda e svizzera, Vincent, il logista, tatuato e francese, e due congolesi che già conoscevo, Joachim tecnico di laboratorio e vice-capoprogetto, e Josué, medico. C’è da mangiare, pollo polenta e foglie di manioca, ma mancano piatti, posate, bicchieri e tazze. Dobbiamo razionare le stoviglie, non è pratico. Poi andiamo in ospedale, visita alla corsia messa a posto da MSF con i suoi venti letti con la zanzariera, ancora vuota perché la base di Ango ha appena aperto (da cui mancanza di stoviglie). Poi giro del resto dell’ospedale: noi abbiamo rinnovato una corsia e il laboratorio, il resto è più andante, ci sono i pipistrelli che svolazzano in corridoio. In laboratorio ci presentano lo staff congolese, il supervisore si chiama Christian.
Di ritorno alla base scopriamo le docce (col secchio), le latrine (una cabina e con un buco per terra), e il tukul centrale facente veci di salotto, sala da pranzo e sala per riunioni. Comodissime sedie di legno, alcune in plastica e panche sono l’ideale per rilassarsi. Quando finalmente decidiamo di andare a tavola, ci accorgiamo che non c’è più niente da mangiare tranne del pane. Incazzati ma filosofi, ci arrangiamo con pagnotte, i tubetti di creme spalmabili varie che gli avevo portato, una scatoletta di sardine e del formaggio congolese. Christina darà una lavata di capo sia a chi ha mangiato prima di noi (ho già notato che lo staff locale ha tendenza a riempirsi il piatto che sembra il Cervino) sia alle cuoche.
Il mattino dopo si parte per il posto dove hanno installato una squadra di depistaggio della malattia del sonno. All’ombra di un tukul aperto, la gente in fila viene a farsi prelevare una goccia di sangue dal dito; viene messa su un cartoncino con un reagente, se c’è agglutinazione il paziente è “sospetto” e viene mandato in laboratorio. A un certo punto arrivano alcune donne molto diverse dalle altre, belle, vestite in maniera colorata, con gioielli e treccine, sono donne Mbororo, cioè pastori nomadi giunti fin lì dal Sahel in cerca di erba più verde per le loro mandrie. La più anziana, con una faccia simpatica e sorridente che ti guarda dritto negli occhi è sospetta, e dobbiamo spiegarle che deve venire in laboratorio. Non parla Ingala, la lingua nazionale congolese, non parla il dialetto locale, e ovviamente non parla francese. Per fortuna un nostro espatriato, Mustafà, è nigeriano, e parla Peul, e le spiega tutto. Scopriamo quindi che è arrivata fin lì con sua tribù da Ndjamena, in Ciad! Ci segue in laboratorio, facciamo gli altri test, risulta positiva, dobbiamo farle una puntura lombare per determinare lo stadio della malattia (sanguinio o cerebrale), e poi dobbiamo ricoverarla per una settimana. Lei è d’accordo, ma spiega a Mustafà che vuole affidarci i suoi soldi, affinché se morisse li diamo a chi di dovere. Noi le spieghiamo per Mustafà intercorso che non possiamo, che li affidi a un familiare e che non muore di sicuro, e lei dice che solo Allah può dire se muore o no e che non si fida dei famigliari. Tutto il mondo è paese.
La sera vogliamo darci una botta di vita, e andiamo a fare «Ango by night». Sotto una tettoia di paglia ci servono nel buio più assoluto su dei tavolini di plastica traballanti dei bottiglioni di birra congolese approssimativamente freschi mentre molto preoccupati notiamo che va tutto a fuoco dai vicini. Hanno semplicemente dato fuoco alle sterpaglie ma sembra l’inizio di un incendio di foresta. Per fortuna il fuoco non si è esteso.
Dopo tre giorni ad Ango con tre tazze e due cucchiai per quindici persone, ma consolati dalle bellissime farfalle multicolori nelle latrine, partiamo per Dingila. E’ un quarto d’ora di volo, ma l’alternativa sarebbero state sette ore di motocicletta nella foresta. Arrivati a Dingila mi mettono in camera con Nicolas nella casa « Simba », non c’è posto per tutti. Anche lì doccia col secchio, ma perlomeno vero water! Lusso! Inoltre la doccia è più comoda, c’è un enorme bidone, non c’è bisogno di preoccuparsi se l’acqua nel secchio è finita prima di essersi tolti di dosso tutto il sapone. I pasti e la vita sociale sono nell’altra casa, «Caribù», a poche centinaia di metri, ma le regole di sicurezza dicono che se fa buio (dopo le 18’30) bisogna essere in due con una lampada o farsi accompagnare da un guardiano. Sabato sera il logista Vincent ha fatto un barbecue di capra, ottimo anche se un po’ bruciacchiato. Domenica gita fuoriporta! Siamo andati al fiume, dove ero già andato due anni fa, passando dalla fila di case operaie testimoni della recente colonizzazione belga fino alla centrale idroelettrica con turbine e trasformatore ancora lì, abbandonati. Questa cittadina fa effetto: le ville dei dirigenti, i depositi di cotone, l’«hôtel des Uélés» cavernoso trasformato in vago bar e chiesa improvvisata e la sua piscina piena di piante. Tutto abbandonato, tutto ancora in pedi, per il resto è come un grosso villaggio. Dalla centrale elettrica andiamo alla spiaggia di sabbia, che tentazione fare il bagno, l’acqua è trasparente e scorre, il fondo sabbioso, non c’è rischio. Un pescatore ci mostra il serpente d’acqua velenosissimo appena finto nella sua rete, cambiamo idea, niente bagno. Al ritorno alcuni di noi decidono di fare parte della tratta a piedi, e così ci fermiamo ad ammirare una fabbrica di olio di palma: c’è un torchio di metallo in cui si mettono le noci e si annaffia d’acqua mentre si ruota la pressa, l’olio di colore arancione brillante mescolato ad acqua finisce in un buco dove viene raccolto con una scodella e versato in un pentolone sul fuoco dove viene asciugato. Lo si vende poi al mercato.
Lunedì partenza per la prima delle due cliniche mobili, a Mulambi. Viaggio in automobile, con la strada («strada?») interrotta spesso da grandi bambù caduti di traverso, bisogna a seconda passarci sopra, scendere dalla macchina e alzarli o tagliarli col machete. Hanno installato il campo in un villaggio di fronte a una scuola, ci sono due o tre casette in muratura, dei tukul, e hanno montato delle tende. I privilegiati hanno delle belle tende grandi, gli altri a dei sarcofagi. Tiro un sospiro di sollievo quando mi mettono in una stanzetta in una delle case, più tardi me ne pentirò. Scopro con un certo orrore le latrine (in frasche pavimento di bambù buco piccolissimo) e le docce (in frasche cielo aperto insetti e vespe), riesco comunque a lavarmi senza farmi pungere troppo e il secchio che mi hanno dato è bastato anche se non sapevo dove posare il sapone. La cena non è male, riso foglie di manioca e antilope. Ci sono le stoviglie, mancano un po’ le sedie e certamente sarebbe più comodo se ci fosse un tavolo. A questo punto botta di vita! Con il proiettore usato per le formazioni comunitarie guardiamo un film. Mi chiedono se per caso ho qualcosa in francese, connetto la mia tavoletta al loro PC e gli do «36 quai des orfèvres», «mensonges d’état» e «le dernier volcan». Cominciamo a proiettare il poliziesco francese, ma è troppo cerebrale e si stufano, passiamo a quello catastrofico tutto una colata di lava e turisti che fuggono, piace di più. Noi siamo comodamente seduti su delle seggiole di plastica davanti al lenzuolo teso, ma ci accorgiamo che tutto il villaggio si è assiepato dietro la barriera (un nastro di plastica teso) del campo e guardano entusiasti.
A letto prima della fine del film visto che sono esausto, il letto di bambù è concavo e la zanzariera traballante. Riesco comunque a trovare una posizione che non mi massacri la schiena e che non mi faccia impigliare nella zanzariera.