MSF missions

02/05/2008

Banda e Bunia, RDC - Maggio 2008

Autore: Roberto La Tour

Giunto a Kampala la sera del 24 Aprile, e dovutamente impressionato dal nuovo terminale inaugurato in occasione della visita della Regina d’Inghilterra, arrivo tardi alla guest house di MSF e fortunatamente trovo qualcosa da scaldarmi in frigo, visto che non avrei saputo come fare da quel luogo buio e isolato ad andare da solo a cercarmi del ristoro. La mattina dopo riunione con la coordinatrice medica e la capomissione, poi via per il campo di aviazione della MAF (Missionary Air Force), da cui un piccolo bimotore mi porta con alcuni altri passeggeri a Bunia, in Congo, dove ero già stato brevemente l’anno passato. Sorvoliamo il bellissimo Lago Alberto, alla mia sinistra tento di intravedere la vetta innevata del Ruwenzori, e atterriamo a Bunia, città di circa centomila abitanti su un piccolo aeroporto usato dai caschi blu dell’ONU. In un angolo c’è un grosso Tupolev da trasporto russo, gli manca un motore, pare abbia mancato un atterraggio e da mesi è lì ad arrugginirsi in attesa di ipotetiche riparazioni.

Mi portano alla casa di MSF, non so cos’era una volta, ma la mia camera è una stireria con una branda sulla cui porta sta scritto a grandi lettere “salon d’honneur”. Per  il resto è un posto abbastanza carino, e mi rifocillo con piacere, poi vado all’ospedale. Ho la piacevole sorpresa trovare un bel laboratorio tutto piastrellato. Hanno seguito le mie istruzioni, l’anno scorso era ancora sotto teli di plastica e il locale definitivo nella fase iniziale della costruzione, e benché le avessero, non le volevano mica mettere, le piastrelle. Saluto i tecnici, mi accorgo che la banca del sangue (un frigo con la porta vetrata), l’unica nostra vera banca del sangue, è quasi vuota. Ovviamente il mio gruppo sanguineo, 0-, è molto ambito, ma sono “prenotato” per il mio ritorno, tra dieci giorni. Ci sono due pazienti in condizioni critiche con bisogno urgente di sangue, arriva una ragazza francese di un’altra ONG, ma è un po’ anemica e quindi non la possiamo prelevare. Non era rassicurata quando n’on l’abbiamo voluta come donatrice, ma l’ho rassicurata spiegandole che i test HIV, Epatiti B e C, Sifilide erano tutti negativi, e che l’anemia non è un sintomo di nessuna di queste malattie. “Mangi bene? Si. Sei vegetariana? No. Scusa la domanda indiscreta, ma hai un ciclo molto forte? No. Hai avuto la malaria? No…” Vabbeh, rassicurata lo stesso, se ne va, mi offre un passaggio, si stupisce che non posso accettarlo a causa delle regole severissime di MSF sulla sicurezza (niente passaggi, soprattutto in automobili senza radio), e me ne torno a casa. La mattina dopo, aeroporto, mi presentano il pilota, il quale mi dice che visto il tempo (diluvia) non si può partire, finalmente abbiamo l’OK, salgo su un aereoplanino minuscolo, ci sono solo io, quindi mi siedo vicino al pilota.

Presto sorvoliamo la foresta equatoriale, non ci sono case, strade, villaggi, si vede solo qualche fiume. Poco a poco la foresta si dirada in una certa misura, si schiarisce un po’, ma continuano a non esserci tracce di attività umana. L’aereo scende di quota, cominciamo a vedere qualche capanna, c’è una collina, lì sopra tre o quattro costruzioni in muratura. Non so ancora che si tratta dell’ospedale, dell’ufficio e della nostra casa. Finalmente un’apertura lunga e stretta tra gli alberi, è la pista di atterraggio, ci posiamo più o meno dolcemente, eccomi arrivato a Banda. Ad accogliermi c’è Anne, la capoprogetto, alcune persone che mi vengono subito presentate come “autorità”, e, dietro una barriera di legno che serve, credo, a impedire che un veicolo si immetta sulla strada trasformata in pista per l’occasione, una gran folla venuta a vedere l’aereo. Prima di essere portato a casa, dobbiamo andare alla polizia, perché pare siamo atterrati senza autorizzazione. Anne è preoccupata che si crei una seccatura diplomatico/legale, ma poi tutto si risolve facilmente. Il posto di polizia è come tutti gli altri edifici là intorno, cioè un tukul, una capanna. Ci fanno sedere, poi ci offrono dello yogurt fatto dalla moglie del capo, ottimo, ma sono un po’ preoccupato del rischio di brucellosi, speriamo bene.

Poco dopo eccomi a casa… In cima all’unica collina, c’è un gruppo di costruzioni di mattoni, le uniche a Banda se escludiamo le due chiese, quella cattolica e quella protestante. Su una specie di gran prato, c’è l’ospedale, la nostra casa, e l’ufficio. Gruppi di capre, attaccate tra di loro con una corda, scorazzano. Arrivo di sabato pomeriggio, il laboratorio è chiuso, quindi vi parlerò prima della nostra sistemazione e delle attività domenicali. La “casa” è un edificio di un piano con una specie di stanzone fungente da salotto / sala da pranzo, tre camere da letto, e un bagno. Non c’è posto per me, quindi mi sistemo nel secondo letto nella camera del logista. Detto letto è in legno, fatto dai falegnami locali, con un materasso di gommapiuma e una zanzariera che si attorciglia. Niente cuscino. Il bagno ha una vasca di cemento, un lavandino e un water, ovviamente senza acqua corrente, ci si lava con dei secchi, riempiti da un grosso bidone. L’acqua fortunatamente non manca, è quasi tutta piovana, raccolta dalle nostre grondaie. La cosa più piacevole è la veranda, che però ha due difetti: è poco utilizzabile quando piove, cioè quando vengono giù le cataratte d’acqua normali da queste parti, e poi soprattutto la sera, se vogliamo accendere la luce. Arrivano allora migliaia di insetti, grossi, falene, coleotteri, che so, che si precipitano sulla lampada e poi ci piovono in testa e nel collo. Il tutto è aggravato dalle urla di Sevasti, la collega greca, che è insettofoba assai… Ciononostante mangiamo lì, dopo esserci serviti dal tavolo della “sala da pranzo”. Ho usato la parola “mangiare”,  ma forse “nutrirsi” è meglio. Fagioli, riso, “foufou”, una specie di polenta bianca insipida, e un po’ di vegetali verdi cotti. Il tutto freddo, perché è stato preparato due ore prima. Beurk. Ogni tanto c’è un po’ di pollo, ma non è che la qualità generale del pasto ne sia particolarmente migliorata.

La sera inauguro lo stupendo bagno, lavarsi con secchiate di acqua fredda non è poi così difficile, dormire senza cuscino invece sì, per fortuna non fa caldo. La prima colazione è vaga, c’è una specie di pane gnecco fatto dalla cuoca, e per il caffè, la scelta è: una bevanda istantanea un terzo caffè, un terzo cioccolato e un terzo orzo, non hanno nemmeno il nescafé, o prepararsi un caffè vero (ne abbiamo, ottimo dell’Uganda) senza caffettiera, di nessun tipo. Ricetta: mettere in un bicchiere due cucchiai da minestra di caffè, riempirlo di acqua bollente, aspettare cinque minuti e travasarlo attraverso un colino in una tazza. Yumm! E’ domenica, quindi riposo. Partita di frisbee sul prato, un tizio della chiesa è venuto a suonare la chitarra, poi insieme a dei suoi amici hanno collegato tante pile e fatto funzionare un organo elettrico che chissà quale origine ha, penso sia quello della chiesa.. Pile? Ma dove le hanno trovate? Semplice, al mercato che c’è appunto la domenica. Le pile si trovano… Ma non granché d’altro. In una radura vicino alla strada (la parola “strada” indica un brutto sterrato) c’è una piccola folla che si aggira tra dei ripari di frasche all’ombra dei quali vengono venduti calzoncini, magliette, pile, qualche medicina (alcune ad uso veterinario, ma non è chiaro se siano vendute come tali), un po’ di fagioli, qualche pesce essiccato che fa paura solo a vederlo, e, ancora legati al portapacchi di una bicicletta, prodotti della caccia, una piccola gazzella, una scimmia. In fondo, sotto ad un immenso albero, alcuni uomini dall’aria spiritata vendono, altri bevono, una bevanda alcolica preparata localmente. Da evitare, secondo me si rischia avvelenamento da metanolo, che può portare alla cecità o alla morte. La sera deliziosa scorpacciata di fagioli e riso freddi e malcotti, sotto una pioggia di coleotteri e falene, doccia a secchiate, poi nanna senza cuscino

La mattina dopo, lunedì, grande agitazione per organizzare rapidamente e iniziare una “clinica mobile”. Il laboratorio nella sua integrità monta in auto baracche e burattini, cioè due microscopi, due centrifughe, due agitatori orbitali, tubi, aghi, pipette e reagenti, e ovviamente generatore, pannello solare e batteria, senza dimenticare i tavoli pieghevoli, e andiamo ad installare il tutto sotto un tetto in un villaggio poco lontano. La gente, avvertita pochi giorni prima della nostra venuta, si mette rapidamente in coda, e così in circa cinque ore testiamo più di duecento persone. Si preleva prima una goccia di sangue dal dito, e la si mette sull’agitatore orbitale insieme a un reagente (test del CATT). Se positivo, si palpano i gangliomi, se si trovano ci si ficca dentro un piccolo ago, si spreme, e si trasferisce il liquido su un vetrino di microscopio, e si cerca una specie di vermetto che si agita. Se si trova, non sono necessari ulteriori esami per ora, il paziente deve venire in laboratorio per una puntura lombare. Se invece non ci sono gangliomi o non si trova niente, bisogna prelevare del sangue, centrifugarlo, cercare il parassita lì, o eventualmente rifare il CATT sul plasma (parte chiara del sangue centrifugato) diluito. Alla fine abbiamo identificato una dozzina di pazienti, che devono tutti venire in laboratorio.

Sono tutti venuti il giorno dopo per la puntura lombare, cioè un prelievo del liquido cerebrospinale (LCR) per vedere se il parassita è passato nel cervello. Nel laboratorio, decisamente piccolo, dopo un po’ c’era una grande confusione. Da un lato arrivavano pazienti per fare il test, come quelli che abbiamo testato ieri, dall’altra quelli che, appoggiati a un grosso ceppo di legno si facevano fare la puntura lombare, e che poi seguendo le istruzioni, si sdraiavano per terra per il riposo obbligatorio. Intorno lo staff faceva il CATT, i vari test sul sangue, sul succo dei gangliomi, sull’LCR, e in teoria io dovevo insegnare e introdurre una nuova tecnica, la minicolonna. Quando è andato via l’ultimo paziente e il laboratorio ha smesso di assomigliare ad un caravanserrail, ho fatto la voce grossa e la cosa è servita: due giorni dopo i tavoli da picnic traballanti, unici mobili del laboratorio, erano sostituiti da banconi di legno belli solidi, i ceppi da veri sgabelli, il ceppo più grosso da un bel seggiolone speciale per puntura lombare, e i pazienti che l’avevano subita andavano a riposarsi sotto una grande tenda subito fuori dal laboratorio.

E così la nostra vita continuava, una sera, verso l’imbrunire, siamo andati a trovare un capovillaggio per spiegargli che avremmo dovuto fare una clinica mobile dalle sue parti, e che è molto importante che tutti vengano, ma non ci sono stati problemi, non ce ne sono mai, la malattia del sonno è conosciuta e la gente si rende perfettamente conto che è nel loro interesse essere testati e se necessario curati. Va ricordato che è una malattia 100% mortale e 100% curabile.

Il primo maggio è vacanza pure lì, abbiamo fatto una lunga passeggiata in paese, lungo la strada che porta verso la foresta. E’ verdissimo, ci sono immensi alberi, le capanne sono sparpagliate e gli abitanti sono sorridenti e amichevoli. Piccoli orti, granoturco, cassava, qualcosa che sono sicuro è caffè, che purtroppo non ho avuto l’occasione di assaggiare. L’assenza di cibo al mercato forse si spiega col fatto che sembrano avere un’economia agricola autarchica, nel senso che ogni famiglia coltiva ciò che mangia. Inoltre ci sono galline, capre, maiali. A un certo punto vediamo un gruppo di gente intorno a qualcosa, ci avviciniamo, un uomo cala un secchio dentro un buco, in fondo una voce grida qualcosa, è molto profondo e buio, quello fuori tira su il secchio, è pieno di terra e sassi. Insomma, stanno scavando un pozzo, e quella è la tecnica usata. Ma mamma mia, e se le pareti cedono? Comunque abbiamo poi saputo che hanno trovato l’acqua a venti metri, e ci hanno messo solo due giorni. Ma che lavoraccio!

Un giorno ho visitato l’ospedale. Noi abbiamo messo su un programma Malattia Del Sonno, ed essendo un programma verticale, ci occupiamo solo di quello. Oltre al laboratorio, installato da noi anche grazie ai miei urlacci, c’è la sala degenza dei pazienti, il reparto malattia del sonno, se vogliamo. Tutti i letti sono stati fatti da falegnami locali, ciascuno ha una zanzariera, le infermiere si aggirano per assicurarsi che le flebo (una di due ore ogni sei ore per due settimane) siano amministrate correttamente. Una grossa tenda è installata fuori per chi vuole uscire tra una flebo l’altra e piove. Ma indipendentemente da MSF, c’è un ospedale, con una scuola di infermieri. La scuola ha parecchi allievi, in aule senza luce, non ho visto libri, l’insegnante legge da un quaderno e gli allievi prendono appunti. Poi c’è l’ospedale vero e proprio: in mattoni, datato, 1948. Dentro è tutto uno sfascio, parte dei soffitti sono crollati, davanti alla camera operatoria una ventina di pipistrelli se ne sta beatamente appeso. Non ho visto tale locale utilizzato, tranne quando abbiamo avuto bisogno di sangue per uno dei nostri pazienti e un infermiere ha donato, l’operazione complicatissima consistente a prelevargli un’unità di sangue è stata effettuata lì, e è già un miracolo che avessero di che fare il test dell’HIV e del gruppo sanguineo.

Comunque il lavoro è intenso, appassionante, e da un enorme soddisfazione. La vita sociale non è proprio come Rio sotto carnevale, anzi non c’è assolutamente niente da fare, come ho accennato non ci sono negozi, caffè, locali, nulla. Ma si possono fare stupende passeggiate, andare a raccogliere manghi o convincere qualcuno che li coltiva a vendervi due ananas (almeno un po’ di buona frutta fresca c’è). Si può anche, la domenica, andare a guardare la partita di calcio, dove i ragazzi del posto, a piedi nudi si affrontano divisi in due squadre. Il problema è che il pubblico guarda voi invece della partita. Ci si può anche organizzare: domenica abbiamo comperato, ucciso ( cioè, fatto uccidere) una capra, farla tutta a filetti, e grigliarla su un barbecue improvvisato. Se, come è successo, inizia a piovere, si trasferisce carne, graticola, brace, tizzoni e commensali sotto una tettoia, e si continua. Un po’ di varietà dalla polenta di miglio fatta sulla carbonella e girata con un enorme cucchiaio dalla nostra cuoca, più simpatica e volenterosa che brava (almeno secondo i miei gusti).

Lunedì mattina è arrivato il momento degli addii, e sono ripartito con un aeroplanino un po’ più grosso, questa volta si tratta di un bimotore. Due giorni completi a Bunia, dove ho donato mezzo litro del mio sangue (lo zero negativo è sempre ricercatissimo), ne ho approfittato per correggere alcuni errori nella gestione delle sacche e verificare la qualità di tutti i test. Ho fatto il giro degli altri laboratori, quelli degli ospedali e centri non-MSF, in vista di un nuovo progetto, e ho insegnato a fare il test dell’HIV al di fuori del laboratorio. Ho pure, insieme al fabbro, con del fil di ferro e una lattina, fatto un fornello per far bollire il liquido cefalorachidiano per dei test in caso di epidemia di meningite. E a casa, ô sorpresa, ô gioia! Spiedini di filetto di pesce fresco del lago Alberto, patate al gratin, e altre delizie… Mi sembrava rivivere! Birra! Quest’ultima a Banda l’abbiamo avuta dopo una settimana che ero lì, portata sul portapacchi della bicicletta di un commerciante sudanese… La sera, al bar! Bunia è una vera cittadina, le case in centro risalgono all’epoca belga. Ci sono negozi, locali. Purtroppo gli autoblindo bianchi dei caschi blu dell’ONU ci ricordano che la pace qui è precaria… E la mia collega responsabile del programma violenze racconta storie spaventose di donne, ragazze, ragazzine violentate da gruppi di soldati e non sempre accettate in seguito dalla loro famiglia.

Infine partenza per Kampala, sotto di me il lago Alberto, poi la campagna ugandese, ecco l’immenso lago Vittoria, l’aeroporto di Entebbe, più famoso per il celebre dirottamento che per essere semplicemente l’aeroporto di Kampala. Due giorni a nella casa di MSF da solo, debriefing, acquisto souvenir, caffè locale, e ritorno a Ginevra.


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