MSF missions

18/02/2010

Dadaab e Kacheliba, Kenya - Primavera 2010

Autore: Roberto La Tour

Partenza come al solito a un’ora impossibile la domenica mattina. Con me oltre al mio bagaglio ho una sacca piena di test diagnostici. Volo via Amsterdam, arrivo a Nairobi verso le venti, e questa volta avendo già fatto il visto in consolato evito tutta la coda. Ricupero i bagagli, e ti pareva se la sacca coi test non insospettisce il doganiere che insiste venga vista dalle “autorità sanitarie”. Per fortuna dette autorità consistono in una gentile signora, che dopo aver timbrato il mio ordine di missione mi lascia passare. Arrivo in guest-house assai stravolto, ma non posso andare subito a dormire perché alle dieci arriva la capomissione con due birre fresche per farmi un briefing. Finalmente vado a letto per svegliarmi - aarrggghh – alle cinque, che viene a prendermi un taxi per portarmi all’aeroporto dei voli interni. Con me c’è Claudette,  simpatica infermiera afroamericana che avevo conosciuto in Swaziland. Voliamo con un bimotore a elica, e arriviamo a Dadaab, sorta di luogo polveroso in mezzo a una pianura inospitale semidesertica dove la temperatura raggiunge livelli infernali. Sarebbe probabilmente un buco di tre case se non fosse che ci sono quattro immensi campi profughi, con annessi gli uffici dell’UNHCR (Alto Commissariato ONU per i Rifugiati). Passiamo un attimo in centro, cioè un incrocio con qualche bancarella, delle vaghe botteghe e asini che vagolano, poi prendiamo la strada verso il nostro progetto. Lungo il percorso superiamo tre dei suddetti campi profughi, si vede la torretta di guardia. Sugli alberi scarni sono appollaiati degli enormi uccellacci neri dal becco lungo, i marabouts, come gli avvoltoi si nutrono di carcasse, ma in questo caso si tratta piuttosto di pattume.

Arriviamo ai nostri alloggiamenti, al “compound”, recintato, dove ci sono gli alloggi, gli uffici, il deposito, l’officina, la cucina e il bar. Eh si, l’unica missione di cui abbia mai sentito parlare con un bar interno. Ottima idea, così nessuno litiga su “l’hai bevuta tu la birra che avevo messo nel congelatore?” e altre amenità del genere. Siamo tutti insieme, staff locale e espatriati, ma per i pasti ci sono due servizi separati, visti i gusti diversi, il che non mi impedisce di andare a gustare, quando ne resta, le specialità dei kenioti. Poca intimità, doccia e latrine hanno la porta che chiude ma per lavarsi i denti e sbarbarsi lo si fa su un lavandino all’aperto davanti a tutti. Visto il caldo e il fatto che non mi ero tagliato i capelli prima di partire, mi faccio imprestare una tosatrice e vado in un angolo appartato, per evitare i risi e i lazzi dei colleghi, lungo la recinzione. Purtroppo al di là del filo spinato era in atto una partita di calcio, e il muzungu (bianco) che si rapa è uno spettacolo molto più interessante che tirare calci a un pallone. Poi hanno cominciato ad arrivare le domande, tra le quali spiccava il costo dell’apparecchio.

Per andare all’ospedale, benché vicino, bisogna prendere l’automobile per motivi di sicurezza. Lo spettacolo più interessante del breve percorso sono gli asini e i marabouts tra sterpaglie e pattume. L’ospedale è su un terreno abbastanza ampio, con i vari edifici e alcuni grandi alberi che fanno fortunatamente un po’ d’ombra. C’è pure un piccolo bar. Il Laboratorio è vasto, ma quella è la sua unica qualità architettonica. Lo chiamerei una spaziosa baracca, con per fortuna alcuni tecnici competenti. Uno solo è Keniota, un tecnico di laboratorio professionista abbastanza bravo, gli altri sono somali e fanno parte della popolazione dei rifugiati. Sono assistenti, ma uno di loro è molto in gamba e ha imparato bene il mestiere. Purtroppo non abbiamo il diritto di promuoverlo ne di dargli un aumento di stipendio, perché essendo ufficialmente un profugo non è sottoposto alla legge keniota sul lavoro ma a quella sui rifugiati, che in pratica gli proibisce tutto. Questo è un vero problema, nei campi ci sono numerose scuole professionali dove si imparano vari mestieri, ma poi dove possono lavorare? Solo all’interno del campo! In Kenya no. In Somalia? Certo, il giorno che tornerà la pace… Comunque l’immagine che mi ha colpito di più è la finestrella grigliata attraverso la quale pazienti e infermieri portano campioni di sputo, sangue, altro.

Oltre all’ospedale nel campo ci sono sei “health posts”, e dovendoli visitare ho approfittato dell’occasione per farmi un’idea del luogo. E non ho parole. Un immenso campo profughi, si estende all’infinito, sembra, in mezzo a questa pianura caldissima, secca, polverosa, coperta da sterpaglia spinosa e troppo asciutta per coltivarci qualcosa. Ah, il governo keniota ha proprio trovato un posto ideale, ma bisogna dire che è vicino alla frontiera con la Somalia, il che permette ai profughi di arrivarci facilmente, a piedi, a dorso d’asino, su carretti, di notte, di giorno. Se quelli che sono lì da un po’ vivono in casette o perlomeno baracche più o meno strutturate, gli ultimi arrivati vivono in specie di “igloo” di rami coperti da teli di plastica (sacchi che hanno contenuto cereali ritagliati). Ci siamo fermati a parlare con una donna appena arrivata, sulla soglia di una di queste eleganti abitazioni, circondata dai famigliari. Ci ha raccontato che abitava Mogadiscio, che suo marito è andato al mercato, e che non è mai più ritornato. E’ lì con figli e nipoti, una sorella, e ci chiede se è vero che si aggirano iene affamate che attaccano i bambini, voce che ho sentito pure altrove.

Ci siamo fermati a vedere il pozzo artesiano, con una grossa pompa a gasolio al momento in manutenzione, e tubi che si diramano verso i punti raccolta acqua. Andiamo verso uno di questi punti, dove una folla di donne e bambini aspetta che torni l’acqua con dei bidoni di plastica gialla. Si, la coda per l’acqua, che vediamo ogni tanto in TV, laggiù è una realtà. Una realtà per 380'000 persone. Aspettano al caldo, sotto l’ombra insufficiente di un albero, il loro turno di riempire qualche bidone che servirà a tutta la famiglia per bere, cucinare, lavarsi. Oggi che c’è la manutenzione alla pompa, l’attesa è più lunga. Cosa succederebbe se se per qualche motivo l’acqua venisse a mancare per parecchi giorni? Ripartiamo (che caldo!) tra sterpaglie, asini e marabouts, e giungiamo al primo “health post”. Assi di legno, tetto di lamiera, coda di donne con bambini, qualche uomo. Test di gravidanza, test per la malaria (poca in questa stagione), consultazione medica fatta da infermiere, distribuzione di medicinali. Poi distribuzione di “farina nutritiva”, polenta arricchita con proteine e vitamine da dare ai bambini. Per questo ci vuole un numero, un foglio, si controlla che non ci siano abusi (è che si vedono le razioni alimentare in vendita al mercato). Gli atri cinque Health posts sono simili. Permettono di limitare il numero di pazienti che sennò intaserebbero l’ospedale, e di evitare ai pazienti di camminare per ore sotto al sole. Quando qualcuno ha un problema serio, vi viene portato con l’ambulanza, parcheggiata fuori: si tratta di un carretto con un asino.

Per finire siamo andati a visitare qualche scuola del campo. Interessanti, ben fatte: scuola di computer, di sartoria, di falegnameria… Insomma, istituti professionali dove ragazzi, e ragazze in tchador imparano un mestiere. Il problema è che non è nel campo che potranno esercitarlo, questo mestiere, e in Kenya non hanno il diritto di lavorare. In Somalia non possono tornare. Che fare? I pochi lavori disponibili nel campo, poi, sono sottopagati e comunque senza futuro, come è il caso per i nostri assistenti di laboratorio.

Tornato in ospedale, finito il lavoro in laboratorio, mi fanno visitare la sala operatoria. Devo mettermi gli zoccoli di plastica, ma quando li hanno lavati col disinfettante devono essersi sbagliati e averli messi nel solvente, perché mi ritrovo con i piedi attaccaticci e tutti verdi. Sarà difficile e faticoso pulirli. Finalmente si torna a casa, mi pregusto una fenomenale birra ghiacciata, ma vengo coinvolto in un litigio furibondo tra gli espatriati che purtroppo avvelena l’atmosfera. Mica facile convivere per mesi in condizioni climatiche e di confort difficili sempre confinati tutti insieme nello stesso posto!

Ritorno a Nairobi, partendo dall’”aeroporto”, una pista in terra e uno spazio coperto con una grossa bilancia per i bagagli. Quando atterriamo, la prima cosa che noto è la freschezza del clima, un grande sollievo dopo il calore infernale di Dadaab. A casa nella guest house, posto simpatico. La sera, con i colleghi di Nairobi a mangiare nel primo ristorante indiano che mi sia veramente piaciuto (viaggio in India incluso), portati da una collega canadese ma di origini indiane. Tre giorni passati a Nairobi per dare un corso al KEMRI (KEnya Medical Research Institute) sull’uso dei test rapidi per la diagnosi della Leishmaniosi Viscerale, poi nuova sveglia a ore impossibili, e una Land cruiser stracarica passa a prendermi per portarmi a Kacheliba. In auto bagagli e cibarie, e quattro tecnici kenyoti che insistono affinché mi sieda davanti. Undici ore di viaggio attraverso verdeggianti paesaggi, con una sosta per pranzo in un’affollatissima tavola calda accanto al mercato di Eldoret. Continuiamo verso Kitale poi Kapenguria, e lì lasciamo l’asfalto per uno sterrato che quando scende una scarpata fa un po’ paura. Ma il paesaggio è bellissimo, arriviamo nel “Pokot County”, è una zona secca con sabbia e piante spinose, ma è tutto verde perché siamo in piena stagione delle piogge. Arriviamo infine a Kacheliba, bella cittadina in cui ero già venuto nel 2007, vicina ad Amudat, in Uganda, dove avevo passato tre mesi nel 2000 sempre per la Leishmaniosi.

MSF è installato subito fuori dal paese, in un compound dove ci sono ufficio, deposito, farmacia e alloggiamenti. Ci sono due case, una con cucina, salotto, e due camere da letto, occupate da Debra Lee, la responsabile, e da Andrew, il logista australiano. Io sono nell’altra casa, dove la cucina è vuota e il salotto ha solo un divano, ma c’è una televisione col satellite! Mi viene attribuita una camera spaziosa, e oltre al corridoio c’è la doccia (fredda), un rubinetto che apre un bidone. Spostando il tubo posso lavarmi i denti nel lavandino. La latrina, ahimé, è in fondo al giardino, e andarci di notte sotto la pioggia è una goduria. Con me vivono pure Adrian, il medico austriaco, e Mary, l’amministratrice keniota. Debra Lee e Andrew condividono la passione per i piedi nudi, la tavola coperta di candele e la cucina vegetariana salutista, mentre Mary la sera monopolizza la televisione su varietà keniani mentre io vorrei vedere la BBC. Comunque la domenica sono tutti andati a Kitale, mentre io, stufo di fare auto su sterrati, me ne sono rimasto lì, e sono andato a zonzo, a vedere il torrente, a fare un giro per il mercato e salire una vicina collina per godermi la vista. Il paesaggio è bellissimo, con i cilindri rocciosi di antichi vulcani e la savana di acacie spinose. Il mercato è relativamente piccolo ma molto bello, vivo, e colorato. Non c’è molto, ma ho potuto comperare degli ottimi avocado.

Ho speso a Kacheliba una settimana, a metter su questo studio su due test diagnostici assicurandomi che i vetrini di biopsia della milza fossero fatti correttamente, così come i test della coagulazione (è rischioso fare una biopsia della milza a chi rischia di sanguinare). Per questi ultimi abbiamo dovuto andare a Kapenguria e Kitale per vedere se la numerazione delle piastrine potesse essere fatta lì. E così è passata una settimana intensa e in fondo piacevole, tra il laboratorio, il reparto, le gite fuoriporta, i varietà africani e le noci di Debra Lee. Infine è venuto il momento degli addii. Niente viaggio in auto fino a Nairobi questa volta, portano Adrian e me all’aeroporto di Kitale, dove ci annunciano che l’aereo è troppo carico e che quindi dobbiamo lasciare lì i bagagli, ma ci assicurano che arriveranno la sera o il giorno dopo. Il tempo di trasferire un po’ di biancheria di ricambio nel mio piccolo zaino, e lascio lì la valigia, decisamente preoccupato. A Nairobi trasferimento alla Guest House, poi tutti in un magnifico ristorante italiano a mangiare ottima carne (mi mancava dopo una settimana a noci, anacardi, avocado e lenticchie), e la valigia mi viene riconsegnata al ristorante.

L’ultimo giorno sono andato a visitare Nairobi, prima il bel museo di antropologia e scienze naturali, poi a passeggio per il centro. Alcuni begli edifici in pietra ricordano il passato coloniale, ma non c’è un “vecchio centro” come, per esempio, a Dakar. Poi sono andato alla stazione, e ho visitato un museo affascinate, quello della storia delle ferrovie dell’Africa Orientale Inglese, con vecchie fotografie, documenti, oggetti vari: per esempio i servizi da tavola delle prime classi. Fuori ci sono pure vagoni e locomotive, si può salire, ed è esposto il famoso vagone letto dove un celebre cacciatore inglese aspettò il leone che attaccava gli operai indigeni. La storia narra che il cacciatore si addormentò, il leone arrivò, e se lo portò via. E così sono finite le mie due settimane in Kenya, ritorno a Ginevra dove cominciano ad arrivare  i primi risultati dello studio di Kacheliba.


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