MSF missions

18/12/2004

Birmania e Laos - Dicembre 2004

Autore: Roberto La Tour

E’ la prima volta che scrivo col computer sulle ginocchia in un aeroporto, ma ho una giornata intera all’aeroporto di Bangkok e ho tanta voglia di andare in città che di infilarmi una supposta: da solo per alcune ore per passare immigrazione e dogana e poi rifare il check-in, no grazie. Sono quindi partito all’esplorazione dei meandri dell’aeroporto, e ho trovato una zona completamente deserta con sedie imbottite e prese di corrente. Allora sto qua e scrivo a quelli a cui voglio bene.

Partito da Ginevra il 27 novembre via Amsterdam e Bangkok, arrivo il 28 sera a Yangon, ex-Rangoon, capitale del Myamar, nuovo nome della Birmania. Prima grana, pare che non basti il visto, ma ci vuole pure la domanda di visto. Poi sembra che si risolve con una mia foto, ma non ne ho. Finalmente mi lasciano passare, aspetto due ore i bagagli, passo senza problemi la dogana e trovo la mia amica e collega Silvia che è venuta a prendermi. Mi porta a casa, una lunga doccia fredda mi rimette un po’ in sesto (acqua calda? Che cos’è?), pastasciutta, e a nanna. Il mattino dopo con un auto molto scassa in ufficio, dove mi viene presentata la dottoressa Pô-Pô, incredibilmente carina, una vera e propria Venere asiatica, mi ricorda Anahit (vedi Armenia). E’ il medico dello staff locale che segue i pazienti AIDS a Dawey. Poi vado a visitare un laboratorio privato moderno e molto ben equipaggiato con cui potremmo collaborare, e via per l’aeroporto con Silvia, alla volta di Myek. L’aerostazione voli nazionali ha solo una vaga somiglianza con ciò che noi chiamiamo aeroporto, i bagagli vengono pesati su una specie di bilancia da macelleria anni trenta e poi aspettiamo l’imbarco in una sala d’aspetto affollata con una rivendita di cibo cinese più o meno fresco. Finalmente c’imbarchiamo, l’aereo è un Fokker vecchio di almeno trent’anni, ma siccome noi siamo considerati V.I.P., ci fanno sedere davanti con gli altri V.I.P., cioè i bonzi e i militari.

Arriviamo a Myek, dove Carlo, il medico del progetto, è venuto a prenderci con una motoretta-taxi, perché l’auto è in giro a col gruppo di lotta contro la malaria. Quindi per andare a casa con il bagaglio prendiamo un “tuk-tuk”, specie di Ape ricostruito da una motocicletta. A casa, che è anche ufficio e laboratorio, trovo Hélène, una collega, e ci installiamo al primo piano in questa costruzione tutta in legno. La notte sono svegliato di soprassalto da un rumore spaventoso, tipo una lotta epica tra una tigre e un elefante, erano due gatti che litigavano davanti alla mia porta.

Myek è molto carina, è tutta in discesa verso il porto con vecchie case rialzate in legno. Sul porto c’è una grande attività di barche da pesca, ed è interessante vedere la catene dei blocchi di ghiaccio usati per conservare il pesce. Facciamo pure una gita in barca fino ad un isola di fronte con un immenso Budda sdraiato protetto da una tettoia, da vicino è ben brutto. In città è tutto un viavai di motorette, quasi tutte sono dei taxi. Con quel mezzo di trasporto andiamo fuori città traversando risaie dove gli aratri sono tirati da bufali, per visitare il cantiere delle imbarcazioni da pesca. E' un posto impressionante dove, non fosse per le seghe elettriche, sembrerebbe di essere in un cantiere navale del settecento. Sono costruite interamente in legno, con tutta la carenatura, e hanno un castello di poppa che fa appunto pensare ai galeoni di una volta.

Quando chiedo se posso guardare la mia e-mail, l’amministratore mi porta in motoretta a casa sua, dove tra gatti, moto, ciarpame, ci sono vari computer con allieve diligenti, e uno è messo a mia disposizione per connettermi. Allora scopro non solo che la connessione è lentissima, ma che i principali portali sono oscurati. Per esempio, se uno prova a connettersi a Hotmail o a Yahoo, appare un messaggio che dice che la connessione è stata rifiutata perché “i contenuti del sito sono stati giudicati inappropriati”. Dopo due giorni a Myek sono partito con Hélène alla volta di Dawei, dove oltre a un altro progetto malaria, c’è il nostro nuovo programma AIDS.

Questa volta per viaggiare usiamo l’aliscafo. Cioè, non proprio, si chiama “speedboat”, è comunque veloce, tre ore e mezzo in tutto. La plebe sta sotto o sul ponte, ma noialtri V.I.P. dobbiamo sistemarci davanti, con bonzi e militari, in una cabina con gli oblò sozzi. Per fortuna non siamo obbligati a stare lì dentro, come era successo a Silvia, ma siamo autorizzati ad andare sul ponte, dove ci sediamo per terra ma respiriamo aria buona e ci godiamo la vista.

Arriviamo a destinazione, e un veicolo sgangherato di MSF ci viene a prendere. Niente Toyota nuove, non ci hanno autorizzato ad importale. Un’ora di strada in un paesaggio sontuoso e bellissimo, una pausa in una simpatica tea-house, ed eccoci a Dawey. Proprio un bel posto, ridente cittadina con vecchie case, e un gran traffico di biciclette, motorette e carretti. A Myek non c’erano bici perché le strade erano troppo ripide, qui invece sono regine. Anche MSF le usa, e sono il mezzo con cui ci spostiamo tra casa, ufficio, MSF-clinic e ospedale. L’atmosfera è piacevolissima, la cittadina è piena di templi e di bonzi (ma anche Myek e Yangon lo sono) e la gente, sia uomini che donne, non portano pantaloni, ma una specie di pareo. Sono in casa con Hélène e Florence, la dottoressa espatriata, mentre Cécile, la coordinatrice locale, dorme in ufficio. Silver, la cuoca, ci prepara manicaretti deliziosi, e ogni tanto andiamo a mangiare fuori, dove mangiare leccornie costa due o tre dollari. Si spazia dal pesce grigliato al al maiale col cavolfiore, ma io sono l'unico a ordinare insalata di intestini.

A Dawey ci sono due progetti: uno ben avviato è un programma verticale di lotta contro la malaria, e il laboratorio di riferimento, dove controlliamo i vetrini è, come per Myek, in ufficio. Per il nuovo progetto AIDS, invece, abbiamo messo su una “clinic”, cioè un ambulatorio, con tanto di laboratorio. Il governo Birmano, però, non ci autorizzava a fare noi stessi il test dell’HIV, che è ovviamente essenziale per iniziare la terapia. Dopo un’infinità di discussioni siamo arrivati al compromesso che un tecnico dell’ospedale viene a fare i test da noi, previa nostra formazione, nostra supervisione e… nostro compenso. E’ una faccenda assurda: dopo mesi di lotta, siamo riusciti ad avere ufficialmente l’autorizzazione ad aprire un programma AIDS, ma non abbiamo il diritto di fare il test… Sembra che il motivo sia dovuto al fatto che vogliono tenere sotto controllo delle statistiche che potrebbero essere per loro imbarazzanti, visto che secondo il potere la Birmania è un popolo virtuoso, ma in questo modo mica ci impediscono di sapere lo status sierologico dei nostri pazienti?!?

Per il programma malaria, ho partecipato a una gita della “mobile clinic”. Vengono caricati in macchina medico, infermiera, tecnici di laboratorio, medicine, microscopi e tutto l’ambaradan e, dopo un’ora e mezza di strada tra paesaggi e paesi di una gran bellezza, si arriva in un borgo dove abbiamo a disposizione una costruzione aperta in legno. In quattro e quattr’otto, si monta un laboratorio per la malaria in una stanza, un altro per la tubercolosi a parte, i pazienti avvertiti fanno la coda, si fanno le analisi, e ai positivi si distribuiscono le medicine. Fuori, maiali impazzano in libertà tra il tempio e le tea-house. Tornato a Dawei, ho visitato l’ospedale, dove ho avuto la gioia di scoprire che hanno alcuni strumenti sofisticati, religiosamente protetti dalla polvere, ma mai utilizzati per mancanza di reagenti. Poi sono andato a dare un’occhiata al centro trasfusionale, e lì il test dell’HIV sulle sacche di sangue è gratis, mentre quelli per l’epatite B e C sono a pagamento, cioè il paziente che riceve il sangue deve pagare per assicurarsi di non essere trasfuso di un’epatite virale. Inoltre sono molto preoccupato per i frigoriferi in cui vengono conservati i sacchi di sangue e i kit per i test: a Dawei c’è elettricità per due ore al giorno, e non sembra abbiano un generatore funzionante. Noi a casa non abbiamo frigorifero, ma bensì una ghiacciaia e comperiamo pani di ghiaccio…

Il weekend abbiamo fatto una gita fuoriporta. Hélène dava una festa di addio, e l’ha organizzata sulla spiaggia, a tre quarti d’ora da Dawei. Ha affittato una casa (senza letti ne altri mobili), e prenotato una cena in un ristorantino. Abbiamo quindi caricato nei nostri sgangherati veicoli bidoni d’acqua potabile, del cibo (parte di quello che ci ha preparato il ristorante), tutta la banda inclusa la divina Pô-Pô, e… un generatore, un cuscino per il generatore, dei tubi al neon, un televisore, un lettore DVD, due casse da concerto rock, un amplificatore, tre microfoni e fili vari. Insomma, quelli hanno organizzato un karaoke sulla spiaggia. Detta spiaggia è bellissima e sembra allungarsi all’infinito, ma sono l’unico che ha fatto il bagno. Alcune ragazze si sono sedute a guardare il tramonto, e tutti gli altri sono rimasti sotto le palafitte della casa a montare il karaoke e a fare le prime prove. C’era ancora il sole che già cantavano illuminati dalla luce dorata del crepuscolo. Alcuni uomini sono poi andati al ristorante a bere tra di loro whisky birmano, poi il pasto è stato servito, la carne la avevamo portata noi ma il pesce alla griglia, freschissimo, meraviglioso, era stato pescato sul posto.

Finita la cena, ritorniamo sotto la casa per il seguito della festa. C’è stata la distribuzione dei regali a Hélène, poi alé col Karaoke. I gruppi birmani cantano versioni locali di canzoni conosciute, vestiti di bianco sulle rive di una piscina in un set pseudo-hollywoodiano. Ma era escluso che gli espatriati non partecipassero attivamente! Hanno tirato fuori un disco con la scritta in inglese, e pure io ho dovuto cimentarmi con la mia bella voce. In piedi, col microfono in mano, come un pirillo, ho dovuto produrmi in “Bye bye daddy cool” e “By the rivers of Babylon”.

La notte fu scomoda, ho dormito su un tavolaccio di legno, ma sono riuscito a farmi una doccia a secchiate. Il mattino dopo, grande bagno, lunga passeggiata sulla spiaggia tra le barche da pesca, poi si reimballano baracca e burattini e ritorno a Dawei. Tra l’altro, la strada tra Dawei e il mare è spettacolare, c’è una barriera di colline tra i due e da in cima una bellissima vista, purtroppo con foschia in questa stagione.

Ancora due giorni a Dawei, poi ritorno, sempre con un vecchio Fokker della Myanma airways, a Yangon. Tre giorni tra laboratori privati e pubblici, e visita al progetto AIDS di MSF-Olanda, iniziato da molto più tempo. In una periferia povera, tra strade di terra e canali di scolo, galline e maiali, MSF-H ha messo su un “day-hospital” abbastanza impressionante in una casa su palafitte tutta di legno, vimini e bambù. Per accedere al laboratorio, bisogna attraversare una corsia dove ci sono alcuni malati in uno stadio molto avanzato della malattia, fanno effetto a vedere. Uno era morto quella mattina, il suo corpo era ricoperto e vi erano deposti alcuni fiori. Di fianco al letto dei parenti in silenzio accendevano candele. In laboratorio hanno lo stesso nostro problema e non possono quindi fare loro stessi il test dell’HIV, mandano quindi i campioni al laboratorio nazionale ma li controllano poi di straforo.

Il mio ultimo giorno ha anche compreso una visita a un antiquario e a un negozio di lacche incredibili. I recipienti laccati sono una grande specialità dell’artigianato locale. L’ultima sera siamo andati a bere qualcosa allo “Strand Hotel”, un albergo dell’epoca coloniale molto chic e tenuto in condizioni perfette, non mancavano ne la bella birmana che suona lo xilofono nella hall ne i clienti anglosassoni che bevono troppo e schiamazzano al bar. Il quartiere intorno all’albergo è tutto di palazzi e edifici dell’epoca coloniale, con pure una torre anni’30 per l’autorità portuale. Abbiamo concluso la serata con anatra laccata e insalata di medusa sulla terrazza di un ristorante cinese sul porto, l’edificio è senz’altro un antico imbarco o ufficio doganale. Di fianco a noi cinque uomini asiatici bevevano come spugne, si divertivano molto e facevano un gran baccano. Il mattino dopo partenza per il Laos; all’aeroporto ho avuto la gioia di trovare un libro (piuttosto un opuscolo) di cucina birmana che ho immediatamente comperato.

Passo di nuovo da Bangkok, e ho la l'esaltazione estetica di costatare che gli addetti e le addette del gigantesco duty free sono sempre correttamente vestiti di azzurro, ma adesso portano un berretto da babbo natale. L’effetto generale è serio, distinto, rispettabile. Il volo per il Laos è con un aereo a elica, un ATR. Non è un velivolo italiano? Arrivo al nuovissimo aeroporto di Vientiane, un po’ a forma di pagoda. Lì il visto si fa all’arrivo, è un’ottima scusa per cattarmi trenta dollari. Sbrigate le formalità, trovo Ahmed, il coordinatore medico, ad aspettarmi. Si è comperato un vecchia jeep russa del 1953, una YAZ, ed è venuto a prendermi con quella. Per prima cosa mi porta a bere qualcosa in riva al Mekong, e ne vale la pena perché è l’ora del tramonto. Dall’altra parte del maestoso fiume, la Tailandia. Ahmed è marocchino, ma ha vissuto negli USA e parla perfettamente inglese e francese. Mi porta a casa sua, dove incontro moglie e figli. La moglie, un’americana bionda con gli occhi azzurri del Colorado è vestita con djellabah e tchador, e scoprirò più tardi che si era già convertita all’Islam prima di conoscere Ahmed. La figlia undicenne invece, ha i jeans e una maglietta, e legge Sheakspeare. Si mangia a casa, un ottimo barbecue di hamburger.

Il giorno dopo, domenica, pigrizia mattutina a casa a parlare di informatica e speculazioni sul NASDAQ con la giovane signora in tchador, che prima di fare la mamma mussulmana faceva l’esperta in sicurezza informatica per delle start-up della bolla tecnologica. Poi colazione in riva al Mekong mangiando uno stupendo trito d’anatra con verdure crude, e via al “mercato del mattino” a comperare sete e dare un’occhiata al mercato dell’oro. Poi al garage delle vecchie jeep, infine al mercato alimentare per acquistare gli ingredienti per la pastasciutta che gli avevo promesso. Mercato colorato, animato, simpatico e allegro. I pesci sono venduti ancora vivi in secchi d’acqua con un tubo per il ricambio, e una bella pescivendola mi ha proposto di sposarla. Era molto insistente, diventava imbarazzante, e mi ha pure offerto un bicchiere di birra. Ho comperato dei funghi, e Ahmed delle grosse rane che a me sembravano rospi. La sera gli ho fatto le tagliatelle ai funghi, e Ahmed le rane pastellate fritte.

Al mattino andiamo in ufficio, e partiamo quasi subito con Thierry, il capomissione, alla volta di Savannakhet, cinquecento chilometri più a sud lungo il Mekong, dove abbiamo il progetto. Thierry guida lui portandosi dietro l’autista, perché dice che non gli piace come guida. Ci fermiamo a metà strada a mangiare riso fritto con pezzettini di carne di maiale, ma io guardo con invidia lo stupendo Phô, minestra di fettuccine e carne, che si è fatto servire l’autista. Ripartiamo, alla nostra sinistra ci sono montagne abbastanza spettacolari, ma la nostra strada si dipana in un paesaggio piuttosto monotono. E’ la stagione secca, la vegetazione è sul giallo. Arriviamo a Savannakhet, e siamo accolti da Camille, Ann, Anne-Lise e Aucille, rispettivamente responsabile terreno, dottoressa, infermiera e infermiera. Ormai è troppo tardi per andare in laboratorio, mi fanno un briefing in ufficio e poi andiamo tutti a mangiare in un ristorantino; un brodo bolle sul tavolo e noi ci mettiamo dentro carne, funghi e verdure.

Il mattino seguente vado in ospedale, sono presentato al direttore sanitario che ha l’ufficio nella vecchia parte coloniale, vedo le corsie con i malati di AIDS, spiego allo staff locale cosa sono venuto a fare, e vado in laboratorio. Hanno dei begli strumenti e li sanno utilizzare, ma possono comperare i reagenti e fare la manutenzione solo grazie a noi. E’ difficile in un programma AIDS mettere su tecniche manuali semplici, che comunque necessitano di reagenti costosi. MSF non può restare in eterno, stiamo cercando degli “sponsor” (Global Fund, cooperazione giapponese, ecc), ma abbiamo di dubbi. Lo stipendio medio dello staff è di 18 – 20 dollari al mese. Come fare a motivarli? Soprattutto come fare quando andremo via?

Il giorno dopo parto con Anne-Lise a visitare un ospedale di distretto, lasciamo la bella strada asfaltata e prendiamo uno sterrato che dev’essere tutto un programma durante la stagione delle piogge. Arriviamo all’”ospedale” (io lo chiamerei piuttosto una vaga baracca), e guardo come fanno il test HIV. Usano una centrifuga a manovella, e siccome non girano la manovella con abbastanza forza, gli mostro come si deve fare. Giro giro, e quella si blocca. Mai successo prima! Le centrifughe a manovella sono indistruttibili! Figura di merda, sembrava l’avessi rotta io. Anne-Lise viene alla riscossa, ci mette dentro un po’ d’olio e quella funziona di nuovo… Siamo allora invitati a colazione dallo staff, e abbiamo l’onore di partecipare a un vero pasto laotiano, sulla terrazza di una casa a palafitte, per terra, con le mani. Minestra di pesce, riso colloso (è una specialità), salsa piccante. Ottimo e simpatico.

Di ritorno a Savannakhet, voglio vedere come fanno i test per i donatori di sangue, ma siccome di donatori non ce n’è, mi prodigo io. Tutto bene, tranne che non li ho visti fare i test, perché per i donatori se ne occupa la croce rossa, che era in giro per scuole e villaggi (pare), e quindi il mio sangue è stato messo in frigo con nome e data, ma senza gruppo ne risultati sierologici. Bah. La sera c’è stata una gran festa per la partenza di Camille, ma niente karaoke questa volta. Erano invitate le autorità, era tutto molto serio, il cibo era ottimo, e poi ci siamo cimentati nelle danze tradizionali laotiane, che fortunatamente sono semplici e discrete. L’indomani ritorno a Vientiane, questa volta guidava l’autista con Thierry che lo sgridava sul suo modo di guidare. Le due sere abbiamo mangiato in riva al Mekong all’aria aperta, ci sono delle donne che hanno un barbecue e grigliano carne e pesce, fanno pure un’ eccellente ma piccantissima insalata di papaia. Venerdì visita a due laboratori, uno che fa soprattutto ricerca finanziata dal Wellcome Trust, ma che non si occupa di AIDS, poi all’ospedale “giapponese” (così chiamato perché finanziato da loro) dove sono molto bene equipaggiati e hanno un reparto malattie infettive, ma non hanno ne gli strumenti di laboratorio ne le medicine per i malati di AIDS, e ce li vogliono mandare a Savannakhet. Adesso stiamo pensando di aprire un progetto a Vientiane.

Ultimi acquisti di sete, ultimo phô, ultima insalata di papaia in riva al Mekong, cartoline (per fortuna ne ho trovate di belle, quelle vendute all'ufficio postale mostrano solo edifici moderni) e ritorno in patria, via Bangkok da dove vi scrivo.


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