MSF missions

11/03/2009

Abeche e Adre, Chad - Marzo 2009

Autore: Roberto La Tour

Partito con air France via Parigi, sono sorpreso nel constatare che il velivolo è piccolo, un Airbus A319 o simile, come quelli usati nelle tratte europee. Il volo dura cinque ore e mezza, e arrivo a N’Djamena di sera. L’autista mi aspettava, e la casa è vicina all’aeroporto. Fa caldo e c’è polvere, ma mi aspettavo di peggio. Mi installo in una di quelle case vuote, vaste, spaziose e vetuste che sono la specialità di MSF nelle capitali, e dopo una rapida doccia mi addentro un cucina sperando di trovare una leccornia nella pentola sui fornelli traballanti, ma c’è solo qualche peperone bruciacchiato. Per fortuna sento delle voci, ed ecco Karim e Fatou, rispettivamente capo progetto (FieldCo) e levatrice a Adré, che hanno portato involtini e crocchette, resto della serata allegro e simpatico.

Il giorno dopo in ufficio, incontro col coordinatore medico (MedCo) e il capomissione, poi in macchina per andare a fare formalità varie, il visto non basta. Prima dal fotografo, poi in una specie di antro cavernoso dove mi vengono fatte le varie autorizzazioni di viaggio per potermi spostare nell’interno del paese. La sera tutti a mangiare in un ristorante all’aperto frequentato dagli espatriati, e il mattino dopo di nuovo in aeroporto. Volo con un aereo del PAM, a elica e spartano, gratuito per noi, ma sono impestati col peso dei bagagli. Sorvoliamo una vasta distesa arida con una foschia di polvere nell’aria, poi arriviamo ad Abéché. Piccolo aeroporto con aerei della Croce Rossa e delle Nazioni Unite, e… Nessuno è venuto a prendermi. Non so dove andare, quando sento parlare italiano, due cooperanti mi aiutano, telefonano a MSF, e un autista arriva di corsa. C’è un sole che spacca le pietre, fa un caldo allucinante, è tutto secco, sabbioso e polveroso. La casa è vasta e scura, divido la mia camera con altri cinque colleghi, ma che gioia, e vedo una bella tavola imbandita, miam! C’è folla perché non ci sono solo coloro che si occupano del nostro progetto (projet papillon) di cui vi parlerò tra poco, ma è in corso una vasta campagna di vaccinazione. Tutti gli espatriati che la seguono sono temporaneamente installati da noi, il che crea un po’ di stress e tensione nel team, come vedremo la stessa sera con la faccenda del lancio del gatto.

Il pomeriggio altre formalità, poi vado all’ufficio dell’UNHCR che funge anche da unico ritrovo di tipo occidentale del posto e da internet café, scarico la mail, poi torno a casa. Aperitivo in cortile, la sera c’è il coprifuoco, birra fresca, scambio di storie, poi esplode il dramma: un gattino vola attraverso il patio, va  a sbatter conto il muro, e rimane rintronato. Un’ infermiera francese caccia un urlo, e scoppia una gran litigata col chirurgo, oriundo del Madagascar, il quale aveva trovato (pare per l’ennesima volta) il micio sul suo letto, non so se ci avesse lasciato sopra pure un ricordo. Interviene nella disputa un ospite, un tedesco che lavora per la cooperazione del suo paese e che era venuto a prendere l’aperitivo da noi. I due hanno quasi fatto a botte, per fortuna il tedesco è stato calmato e se ne è andato. Per tutta la sera non si è più parlato d’altro, e si delineavano tre clan distinti: chi ama i gatti, chi non li può vedere, e chi è indifferente a gatti, chirurghi, e a tutta la faccenda. Il problema è che nei paesi in cui lavoriamo c’è abbondanza di cani e gatti randagi, e c’è sempre qualcuno che ne prende uno sotto la sua ala e ci si affeziona, mentre altri trovano che gli esseri umani hanno la precedenza e che comunque non possiamo farci niente. I gatti inoltre, più furbi e agili dei cani, vengono da soli e, se ancora cuccioli, fanno sciogliere dalla compassione espatriati e soprattutto espatriate.

Dopo una notte al caldo accompagnato dal sonoro russare dei vaccinatori, vado a visitare il laboratorio dell’ospedale, abbastanza bene equipaggiato ma la stanza dove preparano i vetrini per la tubercolosi è chiusa senza aerazione, cosa molto pericolosa per chi ci lavora. Poi attraverso sotto un sole spaventoso un immenso cortile e visito il famoso “projet Papillon”, dove curiamo le donne vittime di fistole vesico-vaginali. In breve: sposate troppo giovani, spesso 12-13 anni, incinte subito, già mingherline di loro, benché pubere non hanno ancora lo sviluppo fisico necessario per portare e partorire un bambino. Un travaglio di quattro giorni, il bambino muore, e nel caso la ragazza sopravviva, si ritrovano con un’apertura tra l’uretra e la vagina, il che provoca incontinenza assolutamente incontrollabile. Un odore insopportabile le accompagna ovunque, la famiglia se ne vergogna, e vengono o espulse o rinchiuse in un tukul. Queste poverette che non hanno fatto del male a nessuno, si ritrovano in inferno. Noi le operiamo, e una chirurgia molto particolare seguita da fisioterapia le rimette perfettamente in sesto, e ritrovano una vita normale e dignitosa. Vengono accolte, ricoverate, operate, curate, rieducate, poi tornano nel loro villaggio. I chirurghi che conoscono questa tecnica sono rari, come sono rare le scuole dove viene insegnata. La più famosa e prestigiosa è ad Addis Abeba. Se vi interessa la questione, vedete www.fistula.org. Quindi potete immaginare che anche se il chirurgo è antipatico e lancia gatti, è un membro dello staff estremamente prezioso e non sostituibile. Dopo una serata senza crisi feline e allietata da qualche birra fresca e da un barbecue preparato dal nostro responsabile della meccanica, altra notte affollata poi al mattino all’aeroporto.

Per la prima volta vedo un aereo ai colori di MSF, volo con quello, e arriviamo ad Adré, dove passerò una settimana. Alla frontiera del Sudan, più precisamente del Darfur, è molto carina, con tutte le case in terra, uomini vestiti come Tuareg ma in bianco su grandi dromedari, e bambine con veli colorati trasportano immense fascine in groppa a piccoli asini. Il caldo e la polvere sono sempre lì, e purtroppo gli onnipresenti sacchetti di plastica attaccati sulle spine dei rovi. Praticamente non ci sono automobili: le nostre, e dei Land Cruiser color cachi completamente aperti (cioè senza parabrezza, vetri, tetto), ma con due cesti ai lati pieni di RPG, cioè missili terra-terra, sapete, quelli che sembrano un bastone con una testa ovoidale, che possono essere lanciati da un tubo portato sulla spalla. Il veicolo e i razzi appartengono all'esercito regolare, ma quello che è preoccupante è che vengono lasciati lì, senza sorveglianza, mentre l'autista e il soldato sono probabilmente andati a bere di nascosto al mercato. La casa in cui mi sistemo è carina, e ho una camera proprio piacevole tutta per me. Ci sono due docce funzionanti e un lavandino comune con specchio in cortile per lavarsi i denti e sbarbarsi, purtroppo i servizi sono costituiti da scomodissime, seppur pulite, latrine. Per andare in ospedale si può andare a piedi, sotto un sole cocente, purché si sia almeno in due e muniti di radio. L'ospedale non è di MSF, ma ci siamo intervenuti con un supporto importante. Il laboratorio è troppo piccolo, e non viene ingrandito perchè si aspetta il trasferimento nel nuovo ospedale costruito dai cinesi. Non solo è troppo piccolo, ma è una semplice stanzetta con un lavandino sporco, e un armadio con posato sopra una serie di poster al tempo stesso espliciti e naïf sulla prevenzione di AIDS , MST, gravidanze indesiderate.

In laboratorio arrivano pazienti, a volte sono soldati, a farsi prelevare il sangue. Poi ci sono bambni anemici che hanno bisogno di trasfusione, e purtroppo hanno una malattia congenita: l'anemia falciforme, molto comune da quelle parti, e continueranno ad avere gravi crisi contro cui una trasfusione può avere un effetto solo temporaneo.

Un giorno siamo andati a vedere il nuovo ospedale, quello costruito dai cinesi, col nuovo laboratorio. E' una struttura moderna, spaziosa, abbastanza ben costruita nonostante alcune magagne: per esempio i banconi del laboratorio sono sufficentemente solidi se spessi dieci centimetri, è inutile farli di mezzo metro: il miscroscopista dove mette le gambe? Comunque questo ospedale ha un grosso difetto: è completamente fuori città, in mezzo a una steppa polverosa. Ma chi ha deciso di metterlo lì non si rende conto che il personale viene a piedi e che i parenti dei pazienti hanno necessità della vicinanza, del mercato e delle botteghe? Che non c'è mensa, e che tutti devono mangiare? Mah... Intanto la vita procede, Fatou, espatriata, levatrice e senegalese, ci tiene che possa assaggiare le specialità locali, e passiamo molto tempo in cucina, anche perché alle sei c'è il coprifuoco. Menomale che c'è la TV satellitare. Riesco comunque a fare una passeggiata, fino al mercato. La cittàdina è, come ho già detto proprio carina, con tutte le case in terra, , e come sono deliziose le immagini di bambine coloratissime su asini con fascina! Il mercato è grante, affollato, rumoroso, e pieno di folklore. Dalle ragazzine che ci vendono del sapone sorriendo e poi litigano con una matrona, agli ubriachi chiassosi (ma non è musulmano, qui?) fino alle cucine di strada dove cuoce appetitosa trippa. Ma l'ora del coprifuoco si avvicina, e dobbiamo affrettarci a tornare a casa. La settimana finisce con una mia infezione intestinale (scomodissimo quando si hanno latrine), delle camminate per andare in ospedale sotto un sole mostruoso, e finalmente il ritorno su Abéché, dove gli animi si sono un po' calmati dopo il lancio del gatto. Di nuovo in dormitorio, poi ritorno a N'Djamena, debriefing con il capomissione al bar di quel simpatico ristorante dove siamo andati all'andata, lì si compano pure souvenir di artigianato locale (bellissimi cofanetti di cuoio sbalzato) e ritorno a Ginevra via Parigi. Mi dispiace solo che ci fosse il divieto assoluto di fare foto fuori dalle case e dall'ospedale.


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