MSF missions

06/03/2000

Amudat, Uganda - Primavera 2000 #4

Autore: Roberto La Tour

Una montagna di puttane

Avrei voglia di cominciare così: fa bello, fa caldo, fa secco. Come sempre, ogni giorno, tutti i giorni. E invece no! Inizia ad esserci un po' di umidità nell'aria, sono addirittura cadute alcune gocce di pioggia. Meno male! Basta con questa polvere, e vorrei tanto vedere la natura rinverdirsi un po'. Per ora si è solo rinfrescato, speriamo inizi la stagione delle piogge. Detto ciò, qui le cose continuano al ritmo abituale, e ci arrabattiamo come possiamo con il materiale che abbiamo. Quando l'altro ieri c'è stato il bisogno urgente di esaminare il liquido cefalo-rachidiano di un paziente sospetto di meningite, ci siamo trovati davanti alla necessità di centrifugarlo. Ora abbiamo: una centrifuga a manovella rugginosa vecchia e scassa, e una bella centrifuga elettrica, ma ahimè niente elettricità (qui la corrente manca proprio). Ho quindi ricuperato di corsa il generatore, l'ho posato davanti al portico, e l'ho collegato alla centrifuga per terra, con tutti che mi guardavano. Il generatore fa il rumore e il fumo puzzolente di un ciclomotore, ma è stato utile, e alla fine abbiamo diagnosticato senza dubbi un'infezione da meningococci. Per il resto la nostra vita sociale procede tranquillamente, e la mattina svegliato alle sette come al solito da campane, asini e sole, ho, primo per la colazione, la gioia di vedere Cecilia, carina e incinta, china a quattro gambe che lava il pavimento.  Abbiamo avuto due ospiti la settimana scorsa: Bernard, il marito della capomissione, e Philippe, il responsabile della logistica. Eravamo quindi allo stretto, ma perlomeno c'era qualche faccia nuova. Mercoledì abbiamo organizzato una festicciola per salutare Cobi, la dottoressa olandese, che se ne va. Abbiamo invitato il personale dell'ospedale, e si sono tutti seduti ben composti sulle due panche di cemento ad angolo della nostra "veranda". Per fortuna, era così solo all'inizio, poi si sono scatenati ballando fino a tardi. Una delle infermiere, molto insistente, voleva a tutti i costi ballare con me, e io ne avevo altrettanta voglia che di infilarmi una supposta.

Il giorno dopo, giovedì, partiamo tutti per Kampala. Finalmente! Cominciavo a trovare la vita ad Amudat un po' noiosa, con il coprifuoco serale (in paese sono tutti ubriachi di sera, si vede gente che deambula ciondolante e che sa di alcool a tre metri di distanza; e molti sono armati di Kalashnikov) e nessuna possibilità di andare in giro. Al programma, oltre a dare un degno addio a Cobi, riunioni, e ovviamente le gioie della vita notturna in capitale, l'accesso all'e-mail, all'ufficio postale e ai negozi. Muriel, Grégoire e Rudiger vanno in aereo, mentre Cobi, Bernard, Philippe e io andiamo in automobile, passando, per ragioni di sicurezza, dal Kenya. Partiamo con la Toyota molto carica, e tutti i bagagli in fondo. I sedili dietro sono delle panche imbottite laterali, e chi è seduto in fondo riceve addosso sacche e valige ogni volta che freniamo o che urtiamo una buca su quell'orrido sterrato chiamato pomposamente "strada". Entriamo in Kenya senza incontrare alcun controllo di frontiera, ma poi dobbiamo fermarci a un posto di polizia dove perdiamo parecchio tempo aspettando che una milizia di "ausiliari" venga armata e spedita a caccia di terroristi. Sono molto amichevoli e ci salutano tutti. Traversiamo un fiume pieno, udite udite, di acqua! Era una visione che incominciava a mancarmi. Poi la strada sempre più brutta inizia ad inerpicarsi su per delle montagne, e dall'altra parte il paesaggio cambia: è verde! Finalmente giungiamo ad una cittadina, e lì inizia una strada asfaltata. Proseguiamo quindi molto più spediti in una regione con campi coltivati e piantagioni di caffè, e arriviamo a Kitale, dove facciamo sosta per la notte in un simpatico alberghetto in un giardino fuori città, con chissà perchè una macelleria di fianco alla reception. La sera andiamo a mangiare in un ristorante indiano deserto, facciamo una passeggiata nel centro a portici senza nessuno, ma con un bar, deserto pure lui, da cui usciva un tale baccano che da solo animava tutta la città. Di ritorno in albergo, abbiamo voluto bere qualcosa al bar, e prima che potessimo dirgli "non preoccupatevi" una cameriera già correva lungo la strada alla ricerca delle bibite che avevamo chiesto.

Il mattino seguente, partenza alla volta della frontiera ugandese. Arriviamo in un luogo caldo, polveroso, imbottigliato da camion, e dobbiamo tutti entrare in un ufficio a fare vistare il nostro passaporto. Difficoltà e problemi nacquero dal fatto che visto che eravamo passati da una frontiera senza controlli, non avevamo il visto di ingresso. Intanto eravamo assediati da venditori di uova sode, banane, noccioline, e shellini ugandesi. Riusciamo ad estirparci, entriamo in Uganda, e il controllo dei passaporti è molto più semplice, ma poi perdiamo un tempo infinito all'ufficio doganale perchè sembra che mancava un documento dell'automobile. Finalmente passiamo, e la strada in Uganda è faticosissima: è asfaltata, sì, ma è piena di buchi, quindi dobbiamo frenare di continuo. Traversiamo un bosco, e sulla strada appaiono numerosi babbuini. Gli lanciamo delle banane, e quelli vengono a prenderle, ma appena tiriamo fuori la macchina fotografica, si spaventano. Intelligenti! Giungiamo a Jinja, dove l'esploratore Speke ha ufficialmente definito le Sorgenti del Nilo, cioè dove il Nilo esce dal lago Vittoria; c'è un immenso cantiere per la costruzione di una seconda diga che dovrebbe assicurare la fornitura elettrica a tutto il paese e la possibilità di esportarne nelle nazioni vicine.

Tra Jinja e Kampala c'è un autogrill pazzesco: sotto alcune tettoie, un'infinità di polli arrostiscono sulla carbonella. E folti gruppi di uomini, donne e ragazzi in uniforme blu si avventano su automobili, pulmini e autobus brandendo ventagli di spiedi con cosce di pollo, fegatini o "gésiers" (il primo stomaco, delicatezza della cucina francese). Dietro le griglierie, ci sono alcuni baretti, dove ci si può sedere a bere una birra mica tanto in pace, visto che i tizi che brandiscono gli spiedi vi seguono fin lì per ficcarveli sotto il naso. Comunque è buonissimo, ed è una sosta che raccomando a tutti la prossima volta che prendete quella strada. Ripartiamo, e ben presto giungiamo a Kampala. Quella sera pranzo da Regina, la capomissione, con veri, autentici formaggi francesi arrivati due giorni prima con Maria, la nuova amministratrice. Dopo un mese e mezzo di fagioli, polenta bianca, cavolo e ogni tanto stufato di capra, non vi rendete conto l'emozione! Il giorno seguente, ufficio postale, dove, dopo aver cercato cartoline decenti in dieci negozi, ne ho spedite a caterve. Passeggiata in centro, rallegrata dalla vista di mendicanti senza braccia e gambe, poliomielitici e lebbrosi, e visita a centro dell'artigianato. Colazione in un take away a base di pesce e patate fritte unte, poi riunione in ufficio. La sera, sabato, pranzo di addio per Cobi al ristorante etiope, molto buono, anche se un pipistrello ha scagazzato sulla camicia pulita di Grégoire. Siamo poi andati in un locale alla moda, dove la gioventù dorata e la classe media emergente di Kampala, si mescolava ai "muzungu", i bianchi. Musica, un bigliardo, una pista da ballo in un angolo, tanta gente animata con bottiglia di birra in mano.

La domenica è stata passata in ufficio ad occuparmi delle mie e-mails, e la sera sono uscito con Rudiger. Siamo prima andati al "Petit Bistrot", un ristorantino francese molto simpatico sotto una tettoia di bambù, dove ho mangiato un filetto al pepe pazzesco, incredibile, fenomenale. Valgono le stesse considerazioni emotive che ho già espresso riguardanti i formaggi della sera prima. Dopo siamo andati a fare un giro a Kalabagala, un quartiere vicino a casa, sulle colline dove la sera c'è un grande animazione. Un caffè dopo l'altro con davanti barbecue di polli, musica, gruppi di giovani. Siamo entrati in un grande locale, dove ci sono slot machines e bigliardi. C'è un sacco di gente, pochi muzungu, e un gruppo di ragazze discinte balla in un angolo. In mezzo c'è un grande bar circolare sotto una tettoia conica di paglia, e ci siamo seduti lì. Ed è allora che è cominciato l'assalto. Ragazze, ragazze, ragazze. Una dopo l'altra, a gruppi, tutte insieme, si sono appiccicate a noi, di fianco, dietro, da tutte le parti. Ci accarezzavano con una mano, strusciavano una tetta contro la mia spalla, spingevano, schiacciavano. Una vera montagna di puttane. All'inizio era quasi divertente, ma poi diventava stressante. Io avevo paura che mentre allungavano una mano in maniera provocante, infilassero l'altra nella tasca dove tengo il portafoglio. Per fortuna, a forza di dirle che avevamo fidanzate gelose, al che replicavano di non preoccuparci che anche loro avevano fidanzati gelosi, e soprattutto di fissare con grande interesse il fondo del nostro bicchiere, si sono stufate e ci hanno lasciati in pace. Siamo così tornati a casa sani e salvi (e non accompagnati), dove i nostri letti sotto zanzariere ci aspettavano, per una notte rinfrancatrice prima di un lunedì di riunioni.

Domani mattina martedì torno ad Amudat, di nuovo con un aereo della MAF (Missionary Air Force). Vi farò sapere nella prossima lettera com'è andata, e cos'è successo durante la mia assenza.


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